giovedì 22 dicembre 2011

IL MIO NATALE: SPIRITO DI NATALE di ALESSIA ALI'



Oggi mi sento triste.
Lo sono come mi capita di esserlo in certe giornate particolari dove ho solo voglia di non esserci, di spegnermi come un televisore rotto.
Per questo ho scelto il racconto di ALESSIA ALI'.
Perché mi calza a pennello.

Buona lettura.

SPIRITO DI NATALE

Ventiquattro dicembre.
La città è una giostra che mi stordisce di luce e rumore.
Il freddo del tramonto è sparito, inghiottito dal tepore dei corpi affannati che affollano le strade con il loro carico di pacchetti frettolosi, di cui ci si è ricordati proprio all’ultimo minuto. Solo io non ho alcun pacco regalo in mano. Se qualcuno se ne accorgesse troverebbe la cosa quantomeno insolita, ma nessuno se ne accorge, nessuno mi vede, mi passano accanto come se non esistessi. Forse è così.
Proseguo lungo i portici che incorniciano Piazza Vittorio, fermandomi di tanto in tanto a guardare il traffico che intasa le traverse e il serpente di macchine che entrano ed escono dal parcheggio sotterraneo.
La gente, quella no.
La gente non mi interessa.
Livia diceva che non sapevo cosa fosse lo spirito natalizio solo perché non riuscivo a condividere il suo insano entusiasmo per tutto ciò che aveva a che fare con festoni e lucine psichedeliche.
«A casa mia» mi ripeteva ogni anno, sbattendo gli occhi così grandi che potevo leggerci dentro tutti i suoi pensieri, «iniziamo a fare festa dal venticinque di novembre».
«Addirittura!» le rispondevo io, ogni anno più distrattamente.
«Già! Nel paese dove sono nata si festeggia Santa Caterina d’Alessandria come santa patrona. Il venticinque novembre, no? Quel giorno tutto il paese è in festa… e a casa mia si tirano fuori gli addobbi di Natale, mentre mia mamma e le mie zie preparano i dolcetti ripieni di frutta secca e le frittelle con il miele».
«Fantastico…» borbottavo.
«Non lo pensi davvero…» rispondeva lei, mettendo su un broncio che la faceva sembrare ancora più bambina.
«No» ammettevo.
E allora lei sorrideva e diceva che non importava, e mi scompigliava i capelli e mi prometteva che mi avrebbe insegnato ad amare il mondo.
Mentre torno indietro lungo via Po, penso che a Livia sarebbe piaciuto passeggiare con me sotto i portici la Vigilia di Natale; si sarebbe fermata davanti a ogni vetrina e avrebbe canticchiato le note malinconiche di qualche canzone suonata male dal vecchio all’angolo della strada e poi…
Scaccio la sua immagine dalla mente.
Livia se n’è andata per sempre.
Quando arrivo sotto casa è buio fondo, non so che ora di preciso, ma mi sembra che alla mezzanotte manchi ancora qualche giro d’orologio. Salgo le scale senza fare rumore, fino all’ultimo piano, ignorando il richiamo dell’ascensore non per spiare i rumori dietro le porte sbarrate degli altri condomini, ma solo perché non sopporto le ghirlande con cui qualcuno tra i più zelanti di quelli stessi condomini l’ha infiocchettato.
Lei la vedo prima di iniziare l’ultima rampa.
È in piedi davanti alla mia porta, tutta avvolta in una sgraziata mantella di panno blu, seria come solo lei sa essere.
«E tu che ci fai qui?» borbotto, facendo di malavoglia i pochi gradini che ci separano.
«Ti aspettavo» risponde, facendosi da parte perché apra la porta e la inviti ad entrare. Io apro la porta e non la invito ad entrare, ma lei mi viene dietro lo stesso.
Il mio appartamento ci accoglie, freddo come sempre. Non accendo la luce e mi dirigo direttamente in salotto, sperando che vada a sbattere contro la libreria che ho piazzato nell’ingresso e la smetta finalmente di darmi noia con la sua invadenza. Ma Sara arriva incolume a destinazione, si disfa della mantella buttandola sul divano e ci si sdraia sopra. Il vestito che indossa è solo un po’ meno bizzarro del solito, ma mette in evidenza tutte le sue curve.
Distolgo lo sguardo.
«Lo sai almeno che giorno è oggi?» mi chiede.
«E tu lo sai?» ribatto, versandomi due dita di bourbon.
«Livia non avrebbe voluto che ti riducessi così».
Butto giù il contenuto del bicchiere in un colpo solo. «Davvero? Allora avrebbe dovuto pensarci prima. Prima di tornarsene in quel suo maledetto paese e prendersi un proiettile vagante dritto nel cervello!». Sara rimane impassibile di fronte alla brutalità del mio sfogo. Così decido di rincarare la dose. «Prima di andare a farsi ammazzare insieme a mio figlio».
La guardo, aspettando il solito mi dispiace di circostanza. Ma Sara mi fissa sgomenta e allora capisco.
«Tu non lo sapevi – mormoro – non sapevi che Livia era incinta».
Lei scuote la testa e io mi sento un verme. Le verso una dose generosa di liquore nel mio stesso bicchiere e glielo metto in mano; lei lo guarda qualche istante in silenzio prima di assaggiarlo con la punta della lingua e poi, arricciando il naso, lo ingolla tutto.
«Non dovevi venire» le dico, ed è il massimo che possa fare per chiederle scusa.
«Lei non avrebbe voluto che gli amici ti lasciassero solo il giorno di Natale» ribatte Sara, i cui occhi scuri si ostinano a fissare i disegni geometrici del tappeto per evitare di incontrare i miei, che di limpido hanno solo il colore. «Anche se sei stato tu ad averci allontanati. Anche se sei tu che fai di tutto per mandarci via».
In quel momento suona la mezzanotte.
All’ultimo rintocco Sara si alza in piedi, barcollando appena. «Buon Natale Walter» dice.
Io rimango dove sono, in silenzio.
Sara finge che la mia indifferenza non le importi, recupera la sua mantella blu, ci si avvolge come in un lenzuolo, e mi lascia solo.
 Venticinque dicembre.
Sono seduto sul divano con una bottiglia di whisky vuota accanto e troppi cattivi pensieri per lasciarmi andare all’ebbrezza.
Lo schermo della tv è fisso sull’immagine di Livia il giorno del suo ultimo compleanno, pochi mesi fa. Mi alzo e vado ad accarezzare lo schermo, poi mi chino verso il mobile lì sotto e tiro fuori una grossa scatola di cartone rosso. Sollevo piano il coperchio, anche se so già cosa ci troverò dentro: chilometri di festoni e lucine intermittenti, qualche pallina spaiata e stelline di vetro soffiato da appendere ai rami spogli di un abete sintetico. Sto già pensando di buttare tutto giù dal balcone quando suonano alla porta. Sara è tornata, sempre con lo stesso vestito, sempre con la stessa faccia da crocerossina. Questa volta però la lascio entrare senza protestare.
La sua presenza mi riempie il salotto.
Si inginocchia sul tappeto, davanti alla scatola aperta, la svuota e rimane a fissare i singoli pezzi cercando di immaginare il quadro d’insieme, poi si alza e inizia e sistemarli in giro per la stanza, lungo il bordo della scrivania, tra i miei libri, tra le foglie di un tronchetto della felicità mezzo appassito.
Io la lascio fare.
«Buon Natale Walter» mi ripete alla fine.
Io getto un’occhiata alla stanza, che non sembra più la stessa. E non sono solo le cianfrusaglie che Sara ha sistemato qua e là a darle un aspetto diverso, no, niente affatto. Il fatto è che adesso, oltre a me e a lei, è tornato anche lo spirito di Livia, e io le sento vicino come non mai. Quello spirito che pensavo di aver perduto per sempre, perché da solo non sarei mai stato capace di farlo rivivere. Quello spirito che si nutre dei gesti di chi, come me, le ha voluto bene.
E allora capisco che quello che Livia avrebbe voluto per me è esattamente ciò di cui io ho bisogno.
«Buon Natale Sara» le rispondo. «Buon Natale».
***
 P.S.- mi scuso con tutte le persone che continuano a spedirmi racconti natalizi per partecipare a questa piccola antologia. Il progetto di chiude la notte del 25 dicembre e sono già oltre il numero massimo di racconti che posso pubblicare in questo spazio. Per questa "eccendenza", oggi, sono "costretto" a pubblicare due racconti invece di uno,per non lasciare niente in sospeso.
Grazie ancora a tutti per la partecipazione e l'amicizia.

ALIAS

2 commenti:

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