IL MIO NATALE è una piccola antologia di racconti natalizi che pubblicherò man mano che i miei amici scrittori (e non solo) mi faranno pervenire le loro personali visioni di una festa che divide come poche cose al mondo. O la si ama o la si odia. Non ci sono mezze misure.
Il primo a cimentarsi nell'impresa è Giuseppe Marotta.
Buona lettura.
L'ULTIMA GRANDE NEVICATA
L'inverno è una stagione da ricchi.
Se sei ricco, il freddo diventa un gioco
perché ti compri la pelliccia e il riscaldamento
e vai a sciare.
Se sei povero, invece,
il freddo diventa una maledizione
e impari a odiare perfino la bellezza
di un paesaggio bianco sotto la neve.
(Oriana Fallaci)
La tv lo ripeteva da giorni: quest’anno avremmo avuto un Natale coi fiocchi.
Sì, avrebbe nevicato. Anche quassù da noi, in collina, dove i vecchi ricordano l’ultima grande nevicata del Natale del’66: l’anno in cui sono nato io.
Mio padre aveva vent’anni allora, e lavorava alla cava di marmo. Era duro lavorare alla cava di marmo, in quel periodo. Era duro e pericoloso. Una volta al mese qualcuno, inevitabilmente, rimaneva schiacciato sotto un lastrone di marmo e le urla le sentivano tutti in paese. E quando sentivano le urla, tutti accorrevano alla cava: qualsiasi cosa stessero facendo in quel momento.
Anche mia madre accorreva, col cuore in gola, come tutte le donne che temevano di aver perso il proprio uomo e come tutte le donne, giunta sul posto, iniziava a pregare: “Sant’Erasmo, San Crispino raddrizzate oggi il suo destino”.
Gli uomini invece smadonnavano come turchi e come turchi sbucavano da ogni parte della cava lanciandosi verso il lastrone assassino per sollevarlo e liberare quel corpo ormai vinto.
Non so se fossero le preghiere delle donne o le braccia forti degli operai della cava, che come fulmini si scagliavano sul lastrone di marmo e lo tiravano su come fosse un cartone, a far sì che tutte le volte il malcapitato, seppure conciato, riuscisse comunque a sopravvivere. Non lo so. Io non credo nei santi e spesso neppure negli uomini, ma in quelle occasioni: quando la forza della fede si alleava alla forza del fisico, beh, in quelle occasioni, di fronte a quell’uomo tramortito ma vivo, io avrei creduto nei santi e negli uomini.
La tv lo ripeteva da giorni che quest’anno avremmo avuto un Natale coi fiocchi. Natale e fiocchi di neve. Quassù da noi, in collina, dove vivo io che odio le feste comandate e i fiocchi di neve.
Anche quando mio padre urlò da sotto il lastrone di marmo, lo sentirono tutti in paese. E tutti, come sempre, smisero di fare quello che stavano facendo in quel momento, ma non accorsero alla cava di marmo come sempre.
Non accorse mia madre che iniziò a pregare e ad aspettare, con il cuore in gola, insieme alle altre donne che temevano di aver perso il proprio uomo: “Sant’Erasmo, San Crispino raddrizzate oggi il suo destino” implorarono, con lo sguardo rivolto alla cava innevata. Pregarono, ma non accorsero.
Non accorsero gli operai che pure erano lì, nella cava; gli operai dalle braccia forti che smadonnarono come turchi più del solito quella volta, e più del solito tentarono di sbucare da ogni parte della cava per fiondarsi sul lastrone di marmo assassino, per sollevarlo come un cartone e liberare quel corpo inerme. Ma la neve, caduta abbondante, aveva bloccato ogni accesso e i soccorsi procedettero lenti, come una processione d’estate.
Lenti e affaticati, gli operai dalle braccia forti, sollevarono più volte il lastrone di marmo che più volte gli scivolò dalle mani. E più scivolava, e più il corpo di mio padre affondava, oramai senza vita, nella coltre di neve.
Era la vigilia di Natale del ’66, quella che i vecchi di qui ricordano come l’ultima grande nevicata. L’anno in cui sono nato io; io che odio le feste comandate e i fiocchi di neve; io che non credo nei santi e spesso neppure negli uomini, aspetterò con il cuore in gola, come faceva mia madre, che giunga dannatamente in fretta l’anno nuovo.
Molto bello questo racconto. Circolare, incisivo. (Maria Iervolino)
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