Il racconto che vi propongo oggi mi è stato inviato da GIOVANNI FABBRI, finalista del Torneo 2011 di GEMS. Nell'email che mi ha spedito si scusa per non essere riuscito a scrivere qualcosa di più allegro sul Natale. Ho sorriso per la sua preoccupazione. Il Natale stimola spesso pensieri poco felici e racconti malinconici, e leggendo le varie visioni arrivate nella mia casella postale, questa sensazione è confermata alla grande. Quello che conta, alla fine, è la piacevolezza del racconto. La sua intensità. La sua capacità di creare una sospensione magica. Un tacito accordo con il lettore. E Giovanni, secondo il mio umile parere, fa centro in pieno con il tocco leggero della sua fantasia.
Buona lettura.
IL TAMBURINO A MOLLA
Kadell era un bel tamburino a molla di latta. Viveva in una scatola
di legno col coperchio trasparente, di modo che tutti potessero rimirare la sua eleganza. Perché Kadell, oltre a essere bello, era elegante. Indossava una bellissima divisa rossa con i risvolti neri, bottoni dorati ed un copricapo da gran parata che pareva un gioiello. Al collo, un cordone ugualmente dorato sorreggeva il tamburo che poggiava all’altezza della pancia, mentre le bacchette che impugnava saldamente erano di vero legno di noce. Dietro la schiena, la chiave del congegno a molla brillava in tutto il suo splendore e i meccanismi funzionavano alla perfezione. O perlomeno, così pensava Kadell. Nessuno lo aveva mai provato, dunque, secondo lui, i suoi ingranaggi immacolati dovevano essere ancora sincronizzati al millesimo di secondo.
Erano nove anni che Kadell stava nel negozio di giocattoli. La prima volta che ci era arrivato, direttamente dalla fabbrica, si era sentito un po’ spaesato. Si guardava intorno e vedeva tanti altri giocattoli che sembravano molto belli. Si era immalinconito pensando che potessero in qualche modo oscurare il suo splendore. Ma poi lo avevano piazzato in prima fila nella vetrina principale e lui era tornato a sorridere, dimenticando in fretta quel momento di debolezza. Era Natale, e lui dava il meglio di sé con la sua divisa elegante e i suoi bottoni brillanti. Man mano che i giorni passavano, gli scaffali si svuotavano e molti giochi che erano arrivati al negozio con lui se ne andavano. Venivano impacchettati e finivano in delle grosse buste per poter essere trasportati via dal negozio. Da lì, era riuscito a capire, sarebbero arrivati sotto degli alberi che la gente teneva in casa in quel periodo dell’anno. Infine, in un giorno specifico, sarebbero finiti nelle mani di qualche bambino. Era uno strano rituale, ma Kadell ne era affascinato.
Quando però il fatidico giorno giunse, nel negozio si spensero le luci e Kadell era ancora sul suo scaffale. All’inizio si sentì triste, ma poi vide il proprio riflesso nella vetrina e fu certo che si fosse trattato solo di una coincidenza.
Passarono i giorni, le settimane e i mesi, e si giunse così al secondo Natale di Kadell nel negozio. Il tamburino a molla tornò a sfoggiare il suo miglior sorriso e la sua posa più marziale, ma intorno a lui nuovi giochi sembravano attrarre l’attenzione dei clienti. Quando il giorno fatidico giunse, si spensero le luci del negozio e Kadell era sempre sul suo scaffale nella vetrina principale semideserta.
“Forse ho sorriso troppo” si disse. “Forse tutta questa eleganza non sarà più di moda.”
Ma poi si rasserenò, convinto che presto sarebbe toccato anche a lui partecipare allo strano rituale.
Per il suo terzo Natale, però, lo attendeva una triste sorpresa. Il posto in prima fila nella vetrina principale fu occupato da un borioso pupazzo parlante, che non la finiva più di ripetere le solite cinque frasi stupide in sequenza. A Kadell fu riservata una posizione più anonima, ma da cui poteva comunque mettere in mostra le proprie belle bacchette di noce e il suo elegante cappello da parata. Ce la mise davvero tutta, occhieggiò gli acquirenti con sguardi ammalianti, brillò come non aveva mai fatto prima, ma non fu sufficiente. Anche quel Natale passò e Kadell rimaneva ancora sul suo scaffale.
“Non è il negozio giusto per me” iniziò a pensare. “Non hanno il tipo di clientela adatta alla mia eleganza”. Malgrado ciò, in cuor suo continuava ad essere certo che prima o poi anche lui avrebbe incrociato il proprio destino.
Passò così il quarto Natale, e poi il quinto, ma Kadell fu ancora sfortunato. Al sesto Natale lo piazzarono in una vetrinetta interna, un po’ polverosa e circondato da un esercito di giocattoli che ai suoi occhi sembravano antichissimi.
“Cosa c’entro io con loro?” si domandava Kadell, che ormai aveva smesso di impegnarsi a risplendere nella sua elegante divisa. “Questi sono solo inutili pupazzi, mentre io suono il mio tamburo con la maestria di un concertista.”
In realtà il suo tamburo non aveva mai suonato, così nessuno sembrava accorgersi della differenza che correva fra il tamburino a molla e gli altri giocattoli. Per Kadell gli anni passavano senza che nessuno chiedesse di incartarlo per portarselo a casa.
Giunse così per Kadell una triste ricorrenza: il suo decimo Natale nel negozio di giocattoli. Ormai nessuno si preoccupava più neppure di spolverare la sua scatola, così i suoi brillanti colori risultavano sbiaditi dietro il coperchio ormai opaco e ingiallito.
“Meglio così” aveva incominciato a ripetersi Kadell da un po’ di tempo. “Almeno nessuno potrà vedermi e scegliermi. Non mi meritano. Nessuno merita di sentire il vibrante suono del mio tamburo. Non sono loro che non mi hanno scelto, sono io che non li ho voluti. Non voglio che mi guardino. Non voglio che mi impacchettino. Non voglio che mi tocchino. Non voglio che qualche bambino maldestro sciupi i miei perfetti ingranaggi. Non voglio che il mio potente tamburo suoni per le loro stupide orecchie.”
Non sorrideva più Kadell, e anche la sua posa si era fatta meno marziale. Quando qualcuno scivolava distrattamente davanti alla sua vetrina, lui era capace di restituire solo sguardi torvi e corrucciati. Quando anche il decimo Natale passò, non era più nemmeno triste. Era gonfio di livore e di altezzosa arroganza, e si preparava a trascorrere un nuovo anno dentro la sua vetrina. Ormai era diventato il suo punto di forza. Nessuno aveva mai resistito così a lungo dentro quel negozio. Nessuno era riuscito a sfuggire per così tanto tempo allo strano rituale del Natale. Solo lui, l’elegante tamburino a molla, aveva avuto il coraggio e la forza per farcela.
Quando il padrone del negozio aprì la sua vetrina e lo prese, Kadell sperò che lo posizionasse in un posto ancora meno visibile, ancora più buio e polveroso, dove il rischio di essere scelti fosse ancora minore. Non gliene fregava niente della gente che entrava e usciva, non gliene fregava degli alberi che avevano in casa, né dei bambini che impazzivano dalla gioia mentre aprivano i regali. Voleva solo tirare avanti e resistere ancora per altri cinque, dieci, cento anni.
Quando però si accorse che il padrone lo stava infilando in un grosso sacco nero capì quello che stava succedendo. Erano cose di cui si parlava spesso nel negozio, a voce bassa e con timore. Il sacco nero era la fine.
Kadell capì che il suo record si chiudeva lì. Capì che non ci sarebbe stato nessun altro Natale per lui. Nessun cliente da guardare storto, nessun nuovo giocattolo da disprezzare. Che venisse la fine, dunque, non aveva paura. Lui era Kadell, il tamburino a molla, e aveva resistito per dieci lunghi anni nel negozio di giocattoli. Avrebbe resistito anche a quello. Si raddrizzò nella sua scatola di legno, tirò in fuori il petto e puntò il mento verso l’alto. Quel negozio di merce insulsa non aveva meritato la sua eleganza, ed era un sollievo sapere di andarsene. Non erano stati degni di lui. Nessuno era stato degno di lui, perciò non gli dispiaceva l’idea che tutto finisse. Niente più lunghe notti fredde dentro una sudicia vetrina. Niente più polvere a scolorire i suoi sgargianti colori. Niente più schifo-sissimi natali da contare. Semplicemente la fine, finalmente.
Kadell sorrise, ma giusto un attimo prima che il buio del sacco gli si chiudesse intorno un pensiero triste gli attraversò la mente.
Non sarebbe poi stato così male.
Almeno una volta fuori da quel negozio.
Impacchettato in una bella carta da regalo e messo sotto un albero in attesa del giorno fatidico.
Gli occhi di un bambino che ti guardano. La sua bocca ad “o” che si spalanca per lo stupore. Le sue mani che caricano il congegno a molla.
Anche solo una volta.
Gli ingranaggi che si incastrano alla perfezione, i meccanismi che prendono vita e le bacchette che si muovono.
No, non sarebbe stato affatto male.
Una volta sola, il suono potente del suo tamburo.
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