Dopo diversi racconti e letterine inviatemi da amici e amiche per l'antologia IL MIO NATALE, mi sono deciso a pubblicare un mio racconto. Non ha il dono della sintesi e me ne scuso. Mi sono divertito molto a scriverlo e spero che per voi non sia troppo noioso leggerlo. Un amico mi ha chiesto se tra le righe nasconda una morale...forse, non lo so, non è importante.
Quando scrivo non penso mai al messaggio da veicolare...seguo l'istinto e scrivo.
Buona lettura.
IL REGALO PIU' GIUSTO PER ME
Incoronata, la mia fidanzata, mi ossessionava da un po’ di giorni con la solita domanda: «Amore, cosa desideri per Natale?» Ed io rispondevo puntualmente: «Quello che vuoi tesoro!»
«Non barare, per favore! É possibile che non sai dirmi una cosa, una sola, che ti piacerebbe ricevere per Natale?» mi rispondeva di rimando, un po’ stizzita dalla mia arrendevolezza.
Ci pensai seriamente un pomeriggio intero, sforzandomi di trovare un oggetto che mi mancasse a tal punto da starci male, da sognarlo di notte, da immaginarlo già tra le mie mani, esposto nella mia casa, dentro il mio armadio, sulla mia pelle.
Ma nonostante l’incredibile sforzo creativo non mi venne in mente nessun oggetto in particolare. Avrei potuto indicare un libro. Peccato che girando tra gli scaffali della mia libreria di fiducia non avevo trovato un solo libro che mi facesse prudere i polpastrelli per la voglia di possederlo. E a dirla tutta ero stanco di ricevere l’ennesima fatica letteraria di Bruno Vespa. Un Natale, le mie amate sorelle, riuscirono a regalarmi due copie dello stesso libro. In entrambi i casi finsi commozione e sorpresa come il più consumato degli attori. La copia gemella del libro la donai senza troppi sensi di colpa alla biblioteca della scuola media frequentata da mia nipote. Dopo averlo fatto mi sentì molto più leggero e in pace con il mondo. Quella sensazione era stata così piacevole che iniziai a convincermi che sarebbe stato un gesto nobilissimo privarmi di tutta l’opera omnia del grande giornalista. In fondo li avevo già letti tutti – una piccola bugia diplomatica – e tenere tanta bellezza tutta per me era un gesto meschino che non si addiceva al mio carattere empatico!
«Se non riesci a decidere possiamo fare un giro in centro per guardare le vetrine» propose Incoronata.
Accettai l’idea con silenziosa rassegnazione. Era inutile opporre resistenza: una donna che porta un nome come il suo, quando si mette in testa una cosa, non cambia idea tanto facilmente.
Uscimmo di casa lasciando la macchina in garage. Volevo evitare di impazzire nella ricerca spasmodica di un parcheggio nel caos del centro. Il freddo era pungente e le luci delle vetrine un richiamo irresistibile per la folla che defluiva per le vie intasate del centro storico. In diversi punti strategici si esibivano mimi e statue umane che attendevano un’offerta dai passanti per muovere il corpo e stupire i bambini con gesti meccanici. C’era di tutto per attirare l’attenzione e stimolare la generosità: faraoni dorati, Totò snodati, pistoleri barbuti, Gioconde incorniciate, fantasmi birboni, Napoleoni pomposi.
Tutti restavano immobili in una posa statica per diversi minuti e si risvegliavano solo nel sentire il tintinnio di una moneta che cadeva nella ciotola metallica ai loro piedi. Incoronata li evitava come la peste. Ci passava accanto solo se era strettamente necessario, tirandomi per il braccio se mi fermavo a guardarli un minuto di troppo. Ho sempre pensato che andare in giro per negozi per lo shopping natalizio è una tortura diabolica, ma andare in perlustrazione per negozi in cerca di probabili regali per lo shopping natalizio è, se possibile, ancora più sadico e crudele.
Incoronata riusciva a fermarsi davanti a tutte le vetrine che incontrava, in una specie di processione pagana del consumatore in crisi di astinenza, e mi chiedeva: «Una camicia? Che ne pensi di una bella camicia elegante? Un portafoglio? Ti servirebbe un bel portafoglio di pelle nera? Un idro-massaggio per i piedi? Ti lamenti sempre di soffrire di dolori e contratture, sarebbe l’ideale per i tuoi piedi così delicati.»
A ogni nuova proposta annuivo poco convinto e passavo alla vetrina successiva. Il freddo mi mordeva la schiena e le mani. Avrei voluto essere ovunque meno che in mezzo a tutta quella gente ubriaca di Natale che mi strisciava e alitava intorno. Speravo solo di non incontrare nessun collega della banca e ancora meno amici o conoscenti. Passammo davanti alla scalinata della cattedrale nuotando contro corrente e in un angolo della chiesa ci apparve un musicista che suonava il violino con uno struggimento particolare. Non era una musica allegra e adatta al clima di festa che si respirava per le strade. Suonava malinconica, stonata in tutta quella confusione chiassosa. Mi fermai per ascoltare con più attenzione, opponendo una resistenza vigorosa ai tentativi di Incoronata di tirarmi via. L’uomo era magro e altissimo nel suo abito nero. Un cappello scuro nascondeva gli occhi sotto la visiera e la barba bionda era raccolta dentro un anellino d’argento. Cercai nelle tasche una moneta e lasciai cadere due euro nella scatola di latta vicino alla custodia del violino.
Incoronata mi tirò con ancora più forza per trascinarmi verso la prossima vetrina, lamentandosi per quello che a suo dire era il modo meno saggio di buttare via il denaro.
«È natale per tutti!» mi scusai timidamente, girando la testa giusto in tempo per vedere il violinista che mi ringraziava con un mezzo inchino.
***
Alle otto di sera la mia schiena mi lanciò l’ultimatum con una fitta più dolorosa delle altre. Incoronata cercò di convincermi a guardare le vetrine fino all’ultimo secondo per trovare un oggetto che mi piacesse, ma il vento freddo e il bisogno di urinare erano gli unici pensieri che lampeggiavano come spie rosse nella mia testa. Arrivati a casa mi chiusi in bagno e lasciai andare senza pentimenti la pressione che mi stava torturando con spilli roventi. Mentre mi godevo quel momento di pace e liberazione con il mio “uccello” ben stretto tra le mani, mi venne in mente (ovvia associazione di idee) che Lazzaro, il mio canarino, era rimasto fuori tutta la sera e che con il freddo che tirava in quei giorni rischiava di prendersi un malanno. Uscii dal bagno, e affrettandomi verso la terrazza portai dentro la gabbia. Scostai il telo che ne copriva una buona metà e vidi Lazzaro fermo sul suo trespolo con le piume tutte arruffate. Si era gonfiato come una palla per proteggersi dal vento gelido. Richiusi il telo e dissi a Incoronata che non era il caso di rimetterlo fuori per evitare che si ammalasse. Sistemai la gabbia vicino alla porta-finestra e rientrai in bagno per cambiarmi e indossare qualcosa di più comodo. La schiena pulsava e anche i tendini dei piedi tiravano maledettamente. Accesi lo scaldino per spogliarmi con più comodità. Avevo appena iniziato a sfilarmi i pantaloni quando Incoronata bussò alla porta.
«Amore…Lazzaro mi sa che…mio Dio… è morto» disse con la voce strozzata dal pianto.
Aprii la porta con i pantaloni sbottonati che mi scivolavano sulle gambe e corsi a vedere cosa succedeva in cucina.
«Ho spostato il telo per vedere come stava» mi disse, quasi scusandosi per il suo gesto istintivo, «e l'ho visto perdere l'equilibrio. Ha ruotato su se stesso con le zampe ancora chiuse sul trespolo ed è rimasto a testa in giù per qualche secondo, poi è caduto sulla schiena a peso morto e non riusciva più a tornare dritto. Sbatteva le ali inutilmente, con le zampette per aria. Ho aperto lo sportellino e con il dito l'ho aiutato a rimettersi in piedi. Ora è fermo nel fondo della gabbia e non si muove…»
Lazzaro, immobile in un angolo della gabbia, con la testa reclinata e le ali chiuse sul corpo, continuava a respirare con grande fatica.
Decisi di accendere la stufa a gas e puntarla contro la gabbia, imitando il suo verso per cercare di farlo reagire. Appena Lazzaro sentì il suono della mia voce sollevò la testolina gialla e si guardò intorno. “Alzati e cammina” pensai, con tutta la fede e la convinzione che il mio cuore era in grado di concepire in quel momento, e aspettai paziente il miracolo.
Passarono venti minuti prima che Lazzaro si rialzasse sulle zampe, salisse sul trespolo più vicino con un piccolo saltello e cominciasse a mangiare come se niente fosse accaduto.
Lo lasciai tranquillo e abbracciai Incoronata, sollevato per lo scampato pericolo.
Io e Lazzaro vivevamo insieme ormai da 8 anni e mi riusciva complicato immaginare una vita senza l’accompagnamento dei suoi canti melodiosi.
«Ci vorrebbe una gabbia più piccola per trasportarlo con più comodità quando tira vento o c’è freddo» dissi sovrappensiero, mentre rientravo in bagno per finire di cambiarmi.
Bastò questa frase buttata lì per accendere una luce diversa negli occhi di Incoronata.
Si presentò a casa mia tre giorni dopo con un pacco dalla forma inequivocabile e altri due pacchi più piccoli, uno di forma tubolare e uno ovale, ed entrò senza darmi il tempo di reagire alla sorpresa.
«Ecco il mio regalo per te!» esclamò tutta soddisfatta, appoggiando il pacco grande sul tavolo della cucina.
«Domani vado a trovare mia madre e ci tenevo a dartelo prima di partire.»
Incoronata, originaria di Assemini, non perdeva mai l’occasione di una festa comandata per far visita all’anziana madre rimasta vedova due anni prima. Era la figlia più piccola. L’unica femmina arrivata dopo tre maschi. Il legame che la univa alla madre era intenso e conflittuale. Incoronata non era mai riuscita ad accettare la scelta della madre di diventare un personaggio televisivo conosciuto per le sue incredibili doti da medium. Una cosa era dilettarsi con le carte e gli oroscopi per pura passione, un’altra apparire in TV e spacciarsi per una maga capace di risolvere i problemi del mondo. Trasmetteva tutti i giorni, tranne la domenica, da una televisione locale, distribuendo consigli e numeri da giocare al Lotto con una serietà che rasentava il ridicolo. Incoronata non aveva mai svelato a nessuno la doppia identità della madre. L’argomento era tabù anche per il sottoscritto. Una sera provai a sintonizzarmi sul canale dove trasmettevano il programma curioso di vedere all’opera la mia futura suocera nelle vesti della famosa medium Solaia - certi programmi hanno un effetto ipnotico sul mio karma – e in tutta risposta, quando Incoronata uscì dal bagno e scoprì il mio gesto di ribellione, si immobilizzò sulla porta del soggiorno e incominciò a lanciarmi contro una serie di insulti così articolati e vari da lasciarmi a bocca aperta.
Cambiai canale alla velocità della luce e cercai di calmare le ire funeste della mia fidanzata.
«Amore, ci sono capitato per sbaglio e poi, vestita in quel modo, mica l’ho riconosciuta…»
«Sei il solito provocatore insensibile» urlò, sparendo in cucina. «Conosci i miei punti deboli e ci balli sopra la mazurka!»
La sua frase mi spiazzò a tal punto da non riuscire a ribattere all’accusa con la stessa acutezza visionaria. Io non sapevo ballare la mazurka!
La guardai tornare indietro con un bicchiere di vino rosso, sedersi sul divano con una luce assassina nelle pupille iniettate di sangue e fissare il vuoto con ostentata indifferenza. Da parte mia cercai di farmi ancora più piccolo, rannicchiandomi a ridosso del bracciolo, strettamente avvinghiato al telecomando per cercare un approdo sicuro. L’ultima immagine di mia suocera in trance per evocare gli spiriti della Fortuna mi restò impressa nella mente per tutta la serata, e continuò a ossessionarmi tutte le volte che mi capitava di incontrarla di persona: non riuscivo a sovrapporre al viso serio e concentrato della donna che vedevo seduta in poltrona a sferruzzare a maglia, quello vistoso ed esoterico della maga che mi era apparsa in televisione con un enorme turbante dorato.
«Ma cosa ti è saltato in mente?» chiesi, sperando che la mia espressione fosse abbastanza sorpresa da renderla felice.
«Era ora che il tuo canarino cambiasse casa.»
Lazzaro gorgheggiò perplesso nella vecchia gabbia e svolazzò nervoso da un trespolo all’altro.
Scartai il pacco e liberai la gabbia dalla carta argentata e il fiocco giallo.
«É stato un incubo impacchettarlo. Spero apprezzerai lo sforzo.»
«Ma certo, amore…»
Scartando il regalo scoprii che gli altri due pacchi, quello tubolare e quello ovale, contenevano il tubo di plastica bianca, il piedistallo e la struttura con un gancio sull’apice, che servivano per sorreggere la gabbia e tenerla ad altezza d’uomo. Quella che mi ritrovavo davanti era la riproduzione esatta della gabbia di Titti, il canarino che Gatto Silvestro cercava di mangiare con scarsi risultati in tutte le puntate del cartone animato. Infilai le mangiatoie negli appositi spazi, agganciai l’osso di seppia alle sbarre, appesi sul tetto della gabbia l’altalena e uno specchietto a forma di cuore con un campanello che suonava tutte le volte che lo sfioravi (chissà come sarebbe stato contento Lazzaro in quella Disneyland per uccelli!) e agganciai persino i trespoli gialli e l’abbeveratoio per rendere più accogliente possibile la nuova casa del mio coinquilino.
«La commessa del negozio mi ha spiegato che lo specchietto serve per tenere compagnia al canarino. Ci vede riflessa la sua immagine e si illude di non essere solo» precisò Incoronata, ripiegando con cura la carta regalo.
Avevo un’opinione più alta delle facoltà intellettive di Lazzaro, ma pensai lo stesso che il trucco dello specchietto sarebbe stato perfetto per risolvere i problemi di molto persone di mia conoscenza.
Mi avvicinai alla vecchia gabbia di Lazzaro e valutai se spostarlo subito o aspettare l’indomani mattina per non agitarlo troppo. Lo osservai per capire meglio come comportarmi: saltellava vispo da un trespolo all’altro: nervosismo o eccitazione?
Incoronata mi disse: «Dai, cosa aspetti a metterlo nella nuova gabbia? Sono curiosa di vedere cosa fa!»
Pensandoci bene non mi sembrava una brutta idea.
Mi avvicinai alla gabbia mezzo arrugginita, spostai il telo, infilai il divisorio nella fessura centrale per ridurre lo spazio e rendere più comoda la manovra (si sa che i canarini non amano farsi acchiappare e tendono a svolazzare da una parte all'altra per sfuggire alla presa) aprii lo sportellino laterale e infilai la mano. Lazzaro, come mi aspettavo, svolazzò cercando di scappare. Riuscii a prenderlo in pochi secondi e con tutta la delicatezza possibile lo sfilai dalla vecchia gabbia e lo introdussi in quella nuova, aprendo la mano e depositandolo sul fondo con gli occhi di Incoronata che seguivano tutta l’operazione con fervida partecipazione. Aspettai che Lazzaro saltasse o volasse sul primo trespolo appena dischiusi la mano e invece…invece non si mosse. Restò fermo sul fondo della gabbia, fu scosso da un sussulto, un fremito leggero e poi restò immobile dov'era, con la testa reclinata e gli occhietti chiusi.
Io e Incoronata ci guardammo increduli: non potevamo credere ai nostri occhi!
«Ma è morto? Non si muove...cosa succede…amore…che succede?» mi chiese. «Fallo tornare in vita. Resuscitalo come l’altra volta…ti prego!»
Io non seppi cosa rispondere mentre scoppiava a piangere. Provai a soffiargli aria sul becco attraverso le sbarre, ma Lazzaro non reagì e non si mosse di un millimetro. Ci ritrovammo come due fessi, in piedi davanti alla gabbia extra-lusso, senza sapere cosa fare. Fu un momento terribile. Incoronata per il senso di colpa non riusciva a smettere di piangere ed io, per quanto mi era possibile, cercai di rincuorarla con parole di circostanza: «Vedrai che dove si trova ora starà benissimo!»
«È colpa mia. Tutta colpa mia. Si sa che i traslochi sono stressanti…»
Incoronata si soffiò in naso sul mio maglione di lana, scossa dai singhiozzi, lasciandoci sopra una striscia di muco verde che finsi di non vedere mentre la stringevo forte.
***
Quella sera andammo a dormire lasciando Lazzaro dentro la sua ultima dimora. Incoronata sperava che durante la notte si risvegliasse per miracolo e ci accogliesse alle prime luci del giorno con il suo canto inconfondibile. Non fu così. Mi svegliai alle sette del mattino per andare al lavoro e sbirciando dentro la gabbia ci trovai il corpo inerte di Lazzaro nella stessa posizione della sera prima. Presi un barattolo di latta dove tenevo del tè verde, lo svuotai in una bustina di plastica per alimenti e con l’aiuto di un tovagliolo di carta (non volevo sentire il suo corpo freddo con le dita) raccolsi delicatamente Lazzaro e lo depositai dentro il barattolo, chiudendolo con il coperchio di plastica trasparente. L’urna più comoda e pratica che potevo trovare per il mio coinquilino pennuto. Consumai una colazione veloce e uscii di casa con il barattolo dentro lo zaino. Lungo il tragitto mi fermai nei giardini pubblici e cercando un angolo riparato scavai con un cucchiaio da insalata una buca abbastanza profonda per contenere il barattolo. Le mani mi bruciavano per il freddo e l’umido della terra mi attraversava la suola delle scarpe. Depositai il barattolo dentro la piccola buca e attraverso il coperchio di plastica trasparente vidi per l’ultima volta Lazzaro adagiato sul fazzoletto di carta.
“Sembra che dorma” pensai, e mi venne da sorridere all’idea che lo stesso pensiero mi era passato per la testa quando avevo visto un collega morto d’infarto dentro la bara nella camera ardente dell’ospedale.
Raccolsi un po’ di terra con il cucchiaio e la gettai nella buca con un movimento deciso. Bastò farlo una volta sola per rendere semplice tutte le altre cucchiaiate.
In pochi secondi coprii il buco e per nasconderlo ad occhi indiscreti ci sparpagliai sopra una bella manciata di foglie secche.
Mi rialzai sentendo i muscoli e i tendini delle gambe protestare e infilai il cucchiaio dentro una bustina per riporlo in una tasca dello zaino.
***
Per tutta la mattinata pensai alla gabbia ricevuta in dono da Incoronata. L’idea di comprare un altro canarino non riuscivo ad accettarla. Certi amori non si dimenticano tanto facilmente!
Nella pausa delle undici chiamai un amico che allevava uccelli e gli raccontai l’episodio della gabbia.
Più io andavo avanti nella storia, più lui rideva dall’altra parte del telefono.
«Scusami, non è molto carino ridere di una tragedia del genere…ma dovresti sentirti…sei uno spasso…» si scusò l’amico allevatore.
«Pensi sia morto d’infarto?»
«Da quanto tempo vivevate insieme?»
«Otto anni.»
«Otto anni? Ma è un tempo lunghissimo. Un matrimonio. Devi ritenerti già fortunato che sia durato così a lungo.»
«Ah, si?»
«Certo.»
«E io che pensavo…»
«Perché non opti per un bel pappagallino? Sono affettuosi, longevi e se lo svezzi con le tue mani si lega a te in modo indissolubile. Come torni a casa vorrà uscire dalla gabbia e stare appollaiato sulla tua spalla tutto il tempo. Hanno un bisogno incredibile di sentire il contatto fisico con la persona che si prende cura di loro.»
«Un pappagallino? Ma sono rumorosi da morire…»
«Non tutte le specie. Se riesci a fare un salto da me questo pomeriggio ti faccio vedere qualche esemplare e mi dici cosa ne pensi.»
Chiusi la telefonata con una strana sensazione che si agitava tra la gola e la pancia. Un verme viscido che si contorceva indemoniato tra le viscere. Buttai giù il caffè in un sorso e salutai il barista lasciando i soldi sul banco, in una ciotola a forma di chicco di caffè.
***
Rientrai a casa per il pranzo e trovai Incoronata davanti alla televisione che piangeva guardando Beautiful. Mi fermai dietro la poltrona e la baciai sulla testa.
«Ciao amore, com’è andata la giornata?»
«Tutto bene e tu…tu come stai?»
«Non è resuscitato, vero?» mi chiese, sollevando gli occhi colmi di lacrime verso di me.
«No, non è resuscitato questa volta.»
«Non è giusto! In Beautiful resuscitano tutti e qui non riusciamo a far tornare in vita un canarino?»
«Già!» risposi imbarazzato, mentre mi allentavo la cravatta e sfilavo la giacca.
Incoronata, sfruttando un’interruzione pubblicitaria, iniziò a girare tra i canali e si fermò sul faccione sornione di Bruno Vespa alle “Previsioni del tempo”: parlava del suo ultimo libro!
Si girò dalla mia parte e buttò lì: «Guarda, il tuo autore preferito!»
Mi voltai verso il televisore e un brivido di paura e premonizione mi salì su per la schiena: sapevo cosa rischiavo se una soltanto delle mie sorelle si fosse trovata sintonizzata in quel preciso momento sullo stesso canale. Ignoravo chi avesse messo in giro la voce della mia presunta passione per Bruno Vespa. Forse era una di quelle inspiegabili leggende famigliari che non si sa mai come nascono, crescono e vanno avanti con il passare degli anni.
Mi rincuoravo unicamente con la prospettiva di arricchire la biblioteca della scuola media di mia nipote con un nuovo volume fresco di stampa.
Voltandomi verso la gabbia vuota cercai di immaginare un pappagallo tra le sbarre che agitava le ali per farmi capire che era pronto a volarmi sulla spalla per mordicchiarmi l’orecchio con il becco.
Sorrisi guardando Incoronata che ritornava sulla mascella squadrata di Ridge con il telecomando e pensai al corpo di Lazzaro in fondo alla buca scavata con un cucchiaio da insalata. Mi avrebbe mai perdonato?
Mi accomodai sul bracciolo della poltrona e chiesi distrattamente, accarezzando la testa di Incoronata: «Quando si mangia, amore?»
grande Carlo!!
RispondiEliminaCara Guchi, mica lo so se sono grande. E' un raccontino di poco conto. Un puro divertimento. Un piccolo sorriso ironico e irriverente. :-)
RispondiEliminaRoberto Turrinunti: Avete mai pensato al regalo che, realmente, darebbe un senso al vostro natale????- Fatevelo suggerire da Carlo Deffenu, il mio amico Carlito stupisce e ironizza sulla vita ancora una volta. E lo fa con un racconto esilarante..apparentemente folle, ma...in fondo in fondo reale, così reale da lasciarti con un pugno di penne in mano, davanti alla televisione, guardando Vespa che consiglia i vostri acquisti!STUPENDO CARLO!!!! Direttamente dal blog di Carlo Deffenu - "Il mio natale: il regalo più giusto per me di CARLO DEFFENU
RispondiEliminaConfesso che ero molto indeciso se pubblicarlo o no. mi sembrava un po' troppo stupidino rispetto all'intensità dei vostri interventi. Poi mi sono detto che in fondo io sono anche questo: un po' scemo. :-)
RispondiEliminaRoberto Turrinunti: E' bello perchè dentro c'è un pò di tutto...dalla superficialità della gente, alla mediocrità dello spirito natalizio commerciale, alla finta chiromanzia, a vespa, all'amore per gli animali, all'idiozia...ma intesa come ironia pirandelliana...senso dell'umorismo, ruffianeria, raffinatezza...l'immagine di te con l'uccello in mano che pisci e ti viene in mente l'uccellino fuori dall finestra...e' stracazzosamente piena di poesia viscerale!SEI MITO!
RispondiElimina:-) arrosisco.
RispondiEliminaRoberto Turrinunti: se tu arrossisci io sono andato in tilt...sto provando la stessa emozione della prima volta che ho letto un racconto di bukowsky...mi sono detto: ma che cazzo dice sto matto?- e poi ho riletto e ho capito e ho apprezzato...e mi sono scompisciato dal ridere riflettendo e dicendo: sì...il dio della parola esiste e benedice tanti piccoli adepti dispersi in mezzo al mondo! grande prosa, grande narratore.
RispondiEliminaE' un racconto che ti frega. Lo so. Leggero...ma nasconde altro. Almeno per me. Poi non è detto che sia riuscito nel mio intento. Io quando scrivo SENTO delle cose...ma non sempre riesco a dire le cose in modo diretto...ci arrivo per immagini e assonanze. Insomma...un casino. :-)
RispondiEliminaRoberto Turrinunti: si si...è proprio il suo bello quel casino creativo che ti sblocca l'intestino e ti fa dire tutto quello che senti...sei al limite con un flusso di coscienza ma equilibrato...ben ponderato. va letto e riletto più volte e il suo bello è che se riesci ad entrare nel casino mentale dell'autore..di sensi ne trovi quanti ne vuoi!
RispondiElimina:-) e pensa cos'è un mio romanzo. ehehhe
RispondiEliminaRoberto Turrinunti: un frullato di follia!!!!!aahahahha
RispondiEliminaComplimenti! Ironico, spiritoso e frizzante.Bravo, spero di leggere ancora racconti scritti da te, un abbraccio Silvia
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