venerdì 23 dicembre 2011

IL MIO NATALE: PRESEPE VIVENTE di MARILENA GUGLIELMI


Ultimi racconti dell'antologia IL MIO NATALE.
Questa volta tocca a MARILENA GUGLIELMI cimentarsi con un tema classico come le feste di Natale. Ci riesce rappresentando un presepe vivente molto particolare e una paura atavica che appartiene alle ansie di ogni genitore.

Buona lettua.

PRESEPE VIVENTE

Scuola materna “Baby parking”, in via dei Mille, a pochi passi dal Po, in pieno centro di Torino. Un asilo esclusivo, dalle tariffe inavvicinabili, unicamente a uso e consumo delle famiglie più abbienti.
I genitori dei pargoletti, seduti davanti al sipario improvvisato nel salone, aspettano l’inizio della recita di Natale. Avvolti negli abiti lussuosi, fatti di seta e lana pregiata, chiacchierano sottovoce, scuotendo le chiome fresche di parrucchiere.
Gisella, una giovane signora alta e aristocratica, attende in silenzio, il cuore gonfio d’orgoglio. Il suo piccolo Gabriele è stato scelto per il ruolo di Gesù: e chi se ne stupirebbe, guardando i suoi occhi celesti, i boccoli d’oro, i lineamenti minuscoli e perfetti, dall’espressione serafica?
All’improvviso il sipario azzurro, decorato con stelle d’argento, si agita lievemente, come se un’improbabile corrente d’aria si fosse intrufolata nell’edificio.
Nonostante il tepore della stanza, qualcuno rabbrividisce, senza sapere perché.
Poi, dal palcoscenico si odono voci alterate, sedie rovesciate; una porta si apre cigolando. Scalpiccio di piedi; un grido di sopresa.
Infine il tendone crolla; una delle bambine è inciampata e l’ha strappato, trascinandolo a terra.
Agli spettatori appare il presepe vivente, in tutto il suo splendore: ma i piccoli attori sono in tumulto, chi ride, chi piagnucola… Tutti indistintamente danno le spalle al pubblico.
Una piccina mascherata da pecorella si tira indietro il cappuccio lanoso, guarda verso i genitori e strilla ingenuamente:
«Gesù è scappato!»
Gisella balza in piedi, e irrompe sulla scena.
«Che succede? Dov’è mio figlio?»
La maestra dei più piccoli sembra imbarazzata:
«Eravamo quasi pronti… All’improvviso Gabriele si è guardato attorno, e ha sgranato gli occhi, come se non ci riconoscesse più. Ha smesso di sorridere… Ed è fuggito!»
«Fuggito? Come? Dove?»
La signorina, poco più che adolescente, arrossisce e accenna con il mento al varco che si è aperto nel folto gruppo dei pastorelli.
La madre attraversa il palcoscenico ed entra nella stanza adiacente, che è un ampio spogliatoio. La direttrice in persona le si para dinnanzi, la chioma grigia raccolta in uno chignon, l’espressione altezzosa, e le afferra un braccio.
Lei si divincola.
«Dov’è mio figlio?»
«Sembra che qualcosa lo abbia spaventato. Ha preso la sua giacca a vento, ed è corso fuori, in corridoio.»
«E nessuno l’ha fermato?»
La dama alza le sopracciglia e la guarda, un po’ ironica.
«Non si agiti, signora. Dove vuole che sia andato? Da solo, un piccino di tre anni?»
In quel momento, quasi a contraddirla, si sente sbattere fragorosamente il portone del palazzo.
Gisella, afferrato al volo il suo costoso piumino griffato, se lo infila varcando l’uscita, scendendo a precipizio le scale; si arresta un istante per raccogliere, da un gradino, uno dei guanti di suo figlio, evidentemente caduto dalla tasca.
In men che non si dica, è in strada.
Suo figlio sta correndo verso ovest, la giacca a vento bianca con il piccolo cappuccio che sobbalza sulle spalle. Gisella lo intravvede, a una ventina di metri, mentre s’infila tra la folla intenta allo shopping natalizio. La gente guarda le vetrine, e sembra non accorgersi di nulla.
«Gabriele! Fermati!»
Inutile; il rumore delle auto e le voci dei passanti inghiottono il suo richiamo.
Lei inizia a correre, ma l’orda, in estasi davanti ai negozi che rigurgitano abiti, scarpe, libri, profumi, cravatte di seta, giocattoli, intralcia i suoi passi.
Gabriele, un po’ più lontano di prima, sembra un folletto. La massa umana non sembra rallentare la sua corsa; si direbbe quasi che il bimbo le passi attraverso.  
Quando svolta all’angolo di via Pomba, lei non lo vede più.
Gisella ha un tuffo al cuore; terrorizzata, tenta di farsi largo tra i passanti; impreca, e scende dal marciapiede.
Un clacson stentoreo la fa sobbalzare. Incurante di tutto, momentaneamente libera dalla calca, lei guadagna qualche metro sul fuggiasco, riuscendo di nuovo ad avvistarlo. Finché trova la carreggiata ostruita dalla coda delle auto, che transitano a passo d’uomo, e si arresta di botto.
Altri clacson risuonano.
Lei lancia un secondo urlo:
«Gabriele, Gabriele! Fermati! Aspettami!»
Nessuno dà segno di averla udita, tantomeno il bimbo, che continua indisturbato la sua corsa.
Avanti, avanti! Deve raggiungerlo ad ogni costo: suo figlio non è mai stato in strada da solo, senza la mano protettiva della mamma stretta alla sua. Non sa nulla del pericolo…
Il piccolo, rapido, avanza lungo via Bogino, a testa bassa, come se evitasse la vista di tutto il fasto e il lusso che lo circondano, come se ne avesse orrore.
Gisella arranca, preme, calpesta, strattona, si agita, geme. Nonostante il freddo, un rivolo di sudore le scorre sul viso. Si strappa di dosso il piumino e lo getta a terra, con rabbia.
«Dannazione, lasciatemi passare!»
Le sue parole sembrano rendere ancor più impenetrabile la muraglia umana. I passanti dall’aria ebete la guardano, indifferenti.
l piccolo Gabriele, un po’ più lontano, sta attraversando via Maria Vittoria, lesto come un cagnolino spaventato.
Sua madre ha il cuore che perde colpi, le braccia tese follemente in avanti. Inciampa in un tombino. Uno dei suoi tacchi a spillo si è incastrato nella grata.
Scalciando rabbiosamente, Gisella si libera delle scarpe, e prosegue, disperata. Dopo dieci passi le sue calze finissime sono a brandelli, ma lei, per una volta, non se ne dà pena.
Ha gli occhi annebbiati dalle lacrime.
Eppure, vede ancora Gabriele, poco lontano.
Via Rossini. Per fortuna le strade di Torino sono dritte. Per fortuna la giacca a vento bianca di suo figlio spicca, come un fiocco di neve svolazzante, tra i cupi pastrani invernali dei passanti. Per fortuna…
La moltitudine non accenna a diradarsi, sempre più chiassosa, ghignante, ingombrante… Sempre più assurda.
Come mai se ne accorge solo adesso? Ha vissuto tutti quegli anni senza capirlo?
Esausta, i piedi sanguinanti, i capelli intrisi di sudore, sente che le forze l’abbandonano, mentre un’angoscia indicibile le stringe il cuore. Com’è possibile che un bimbo così piccolo riesca a percorrere un tragitto così lungo, senza stancarsi, senza un’esitazione, un indugio? Com’è possibile che non si fermi più?
Gabriele imbocca corso San Maurizio, quasi seguisse un itinerario ben preciso.
Lei piange, con lunghi singhiozzi ansanti, aggrappandosi alle ultime energie che le sono rimaste. Non può perderlo!
Corso Regina Margherita: stanno allontanandosi dal centro. I marciapiedi sono più sporchi, i negozi più modesti, alcuni hanno l’insegna scritta in cinese.
La folla si è diradata, e Gisella riesce ad avanzare più in fretta, ma misteriosamente, la distanza che la separa da Gabriele non diminuisce.
Oh, le macchine che sfrecciano veloci, sollevando schizzi d’acqua gelida dalle pozzanghere! Oh, i tram che, sferragliando, scivolano sui binari! Non si è mai accorta di quanto siano terrorizzanti?
Darebbe qualsiasi cosa per interrompere l’incubo. Qualsiasi cosa!
Signore iddio… Laggiù c’è Porta Palazzo, e il mercato, e una nuova folla. Assai diversa dalla precedente, ma ugualmente pronta a inghiottire Gabriele.
Gisella lancia un lungo strillo acuto…
E di colpo, tace, incredula.
Qualcuno ha fermato il bambino.
Una ragazza dai capelli neri e dalla pelle ambrata l’ha acchiappato al volo, e ora gli accarezza la manina. Un arabo con il turbante si accoccola sul marciapiede per guardarlo in faccia. Un donnone africano, con un lungo caftano di cotone e uno scialle rattoppato, gli sorride, un po’ intirizzita. Le sue bimbe dalla pelle d’ebano gli parlano rapidamente in una lingua sconosciuta, mettendo in mostra i dentini smaglianti.
Gisella non riesce a staccare gli occhi dalla scena.
Il suo prezioso bambino, tutto occhi e riccioli dorati, sorride ai suoi nuovi compagni di presepe.

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