venerdì 16 dicembre 2011

IL MIO NATALE: IL NATALE DI ZIA NINA di ANNA MARIA FABIANO


Leggendo il racconto di ANNA MARIA FABIANO ho subito pensato: ecco il racconto classico che mancava all'antologia. Dopo fiocchi di neve miracolosi, tamburini a molla sfortunati, gabbie e canarini, incontri londinesi, arriva una storia in cui ognuno di noi, chi più chi meno, può riconoscersi. Io leggendola ho rivissuto i Natali a casa di nonna Vittoria, e anche se non si facevano molte delle cose che descrive il racconto, se ne facevano sicuramente delle altre. Rituali che si ripetevano fedeli ogni anno e che un po' mi mancano, ora che la mia nonna non c'è più e la famiglia si è sfaldata in tanti rivoli confusi e solitari.

Buona lettura.


   A casa di zia Nina c’era un salone immenso, quello del famoso divano profanato dal cugino Vittorio, del quale andava molto fiera. Era diviso in due parti: in quella più piccola c’era, oltre a un angolo divani-poltrone, un pianoforte antico di marca tedesca, quello appunto su cui zio Ugo suonava nel giorno del suo onomastico, e nella parte più grande, separata dall’altra da due muretti laterali sui quali lei amava tenere ogni sorta di ninnoli, c’era la zona pranzo, un arredamento stile barocco che allora tutti ammiravano, e che poi invece sarebbe presto passato di moda, quando la mania dell’antiquariato autentico, inglese o italiano che fosse, ma lineare e poco fronzoloso, avrebbe invaso il gusto e le scelte di tutte le famiglie medio-borghesi. 
Quel salone si animava soltanto nelle occasioni speciali e al di fuori di queste, giusto consuetudini di una volta, era tenuto come un museo. Una di queste occasioni  era appunto il Natale.
Era ormai diventata un’abitudine il fatto che alla famiglia di Silvia si unissero zia Maria e zio Fofò e solo qualche volta anche zia Cettina e zio Franco: in quei casi la gioia arrivava al settimo cielo perché le sei cugine femmine avevano, assieme ai fratelloni, un tavolo tutto per loro e gli adulti sedevano al grande tavolo intarsiato dai piedi alla… testa: a capotavola sedeva nonna, la mamma di zio Pietro che, in barba al diabete, mangiava più di tutti messi assieme, e poi il giorno dopo commentava: “Ho mangiato un pochino di tutto, ma solo un pochino” e si rideva a crepapelle di questa sua convinzione, mentre zia Nina invece si incavolava, e di brutto. All’altro capotavola stava zio Fofò che, al solito, mangiava e basta, non diceva una sola parola insomma, ma in compenso rideva di gusto alle battute di zio Franco, fino alle lacrime. Le sei (la banda segreta) scendevano sotto, andavano dalla signora Tabacchino e compravano quelle letterine tanto di moda allora, piene di granellini d’oro che a volte suonavano anche, e poi a Silvia toccava il piacevole compito di scriverne quattro, perché loro dicevano che era brava e aveva le idee; e lo diceva anche Carla, che di idee ce ne aveva, ma le venivano brevi, perché era molto sintetica di natura, e allora Silvia doveva dilatarle.
Una lettera per ogni papà e una, la più grande, per nonna, che in quella circostanza diventava la nonna per antonomasia.
Poi il rito: i tre papà e la nonna facevano finta di non sapere niente, si cominciava a mangiare la pasta con le alici, l’aglio e la mollica e, dopo la prima forchettata, zio Pietro incominciava la sua pantomima: “Ma cosa c’è qua sotto… una letterina… ma guarda guarda…” e così, tra una forchettata e l’altra, si leggevano ad alta voce, si battevano le mani e zia Maria faceva sentire la sua risata argentina che sembrava uno strumento e metteva allegria a tutti.
Promettiamo di essere migliori, voi siete così buoni con noi, voi ci date tutto, noi siamo monellacce, noi non meritiamo niente, nasce Gesù
... sì tutta melassa, tutta retorica ritrita forse, ma che lo fosse non ce n’era alcuna consapevolezza e lo si capisce solo con gli occhi di adulti, perché ci si credeva davvero in quelle letterine e ci si sentiva felici, sereni, appagati di quella grande famiglia dove c’erano delle ripetizioni comportamentali assurde, forse anche noiose a sguardi esterni, ma profondamente efficaci.
La Serenata araba che zia Maria suonava soprattutto per il marito, Astro del Ciel che strimpellava Silvia e che tutti accompagnavano con il canto, e poi la Messa a Santa Teresa a mezzanotte, dopo aver sparato quei giochetti d’artificio che solo erano consentiti, le stelline, quelle che sprigionavano scintille, solo scintille e basta, ed effimeri bagliori i quali, mescolandosi al freddo secco della notte accucciata ai piedi dell’altopiano, facevano esultare di gioia, di pace, di sereno godimento di quel tempo imbevuto di semplicità, di tenerezza, di sentimento appagante e ristoratore.
 Non c’era quella assurda fame di regali forsennati che c’è oggi; è vero, in tutte le epoche si dice una volta… il passato, per sua costituzione… psichica, sembra sempre migliore del presente e forse non è neanche giusto chiamarlo sempre in causa come fosse l’unico antidoto ai problemi dilaganti, ma il divario, in questo caso, è troppo evidente perché si possa negare: è come se si fossero bruciate le tappe di un viaggio in un istante; ieri si era ingenui, oggi forsennati e dissipatori; ai bambini tutto è dovuto, bisogna farsi perdonare forse per quello che non si sa dare, per quello che costa dare, è più facile aprire il borsellino, è più facile dire di sì, a fronte di tanti no, di tanta dispersione d’energia vitale e profumata di bucce di mandarino. Oggi è tutto cambiato e in alcuni casi in meglio, lo ribadiamo ed è inutile negarlo, non bisogna essere moralisti, ma se tutti ci si lamenta che il Natale non si sente, allora bisogna scrutarsi dentro, bisogna guardarsi negli occhi reciprocamente e dire: Perché?

 Al ritorno dalla Messa di mezzanotte, tutto era consentito, anche stare fino all’alba a giocare a tombola, a mercante in fiera e a sette e mezzo e, naturalmente, non veniva permesso di utilizzare che pochi soldi; il gioco era un gioco, non era il vile danaro a contare, anche perché la tombola soprattutto, ché quella era il passatempo preferito e vincente, diventava un’originale farsa recitata: per ogni numero le cugine avevano inventato uno strano codice, e povero il malcapitato al quale capitava di intrattenersi con loro, che non era dei loro. Chi poteva capire cosa significasse quando si diceva Silvia al posto di 11, Tonino alias due Stelline al posto di 55 (Stellina, che era grassottella, aveva il numero 5  e Tonino il doppio di lei…) Carlavecchia  al posto di 21, perché Carla cambiava numero ogni Natale? E poi c’era un numero per ogni segreto, segreti di bambine prima e di ragazzette dopo, quando cominciarono i primi amori e allora le letterine di Natale si unificarono in una sola che cominciava così… Per prima cosa vi comunichiamo che sotto ci aspettano i nostri ragazzi e, solo se ci consentirete di uscire con loro, faremo le nostre solite promesse… che cosa credete, che siamo ancora delle mocciose?
E giù risate, battute, occhiolini, corse da una finestra all’altra, perché poi quelle teste matte usavano dare appuntamento a gruppi diversi, con la speranza che almeno uno si presentasse, e una volta se ne scapparono dall’uscita secondaria del garage perché ad aspettarle c’erano almeno tre o quattro ragazzi per ognuna di loro!
Quanti ricordi, quante magie, quanta storia si è immortalata nella grande sala da pranzo di via Brenta e ogni anno era diverso, ma era anche simile all’altro: c’era sempre amore, sempre festa, sempre pace, sempre unione e sempre quella pasta con le alici e la mollica che profumava d’aglio e di prezzemolo e che sapeva di Natale, un Natale mescolato all’essenza dei mandarini e al suono delle campane, intriso di sacro e profano, di tradizione e di rinascita.
C’era un senso che poi sarebbe tornato sempre nei ricordi e avrebbe dato senso anche al nuovo presente, che assisteva implacabile alle trasformazioni e ai cambiamenti.
E se anche talvolta, per caso, c’era qualche nube, qualche dissapore, qualche filo che non funzionava nell’ingranaggio di quella strana grande famiglia, il tempo, con il suo trascorrere, riusciva a cancellarlo e a lasciare spazio solo alle cose belle, alle situazioni positive, a creare una sorta di serbatoio al quale attingere, con la certezza di relegare la solitudine e la paura in angoli irraggiungibili. 

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