Dopo tanto tempo torno a postare un mio racconto.
Questa volta ho scelto una storia dai toni forti... pensata nel 2006 e portata alla luce in questo strano 2013.
L'idea mi esplose in testa visitando una mostra di pittura.
Cosa c'entra la pittura con il racconto? Niente. Ma le vie percorse dalla mia mente sono davvero imprevedibili.
Buona lettura.
ADESSO ARRIVA LA RAGAZZA
Monica tremava ancora quando
lavò le forbici sotto il getto dell’acqua nel lavandino del bagno. Il sangue
scorreva lungo le dita diluito in un rosa pallido e spariva in un rapido
vortice nel buco dello scarico con uno strano risucchio, simile al suono di una
gola catarrosa che cerca di prendere aria.
Le lampadine intorno allo specchio illuminavano una donna in sottoveste, con i capelli incollati alla testa e il volto stravolto dal dolore. Piccole macchie rosse costellavano le braccia e la pelle del viso, germogliando come corolle sulla seta della sottoveste.
Le lampadine intorno allo specchio illuminavano una donna in sottoveste, con i capelli incollati alla testa e il volto stravolto dal dolore. Piccole macchie rosse costellavano le braccia e la pelle del viso, germogliando come corolle sulla seta della sottoveste.
Nella grande casa regnava il
silenzio. Monica aveva calcolato tutte le mosse nei minimi particolari. Niente
era stato lasciato al caso. I domestici godevano di un permesso speciale per
partecipare al matrimonio della figlia della cuoca: sarebbero rientrati in
servizio solo per la colazione del giorno dopo. Ma a quel punto il lavoro
sarebbe stato portato a termine come si conviene a una donna di parola. La sua
parola.
Era certa che dopo quel piano
progettato con tanta cura la sua vita si sarebbe ribaltata senza darle nemmeno
il tempo di dire un semplice bah!
Ma quando la testa batte e
non lascia spazio alla ragione, puoi solo assecondare quel ritmo ossessivo,
martellante.
Si sfilò la sottoveste
macchiata. Aprì l’acqua calda della doccia e sparì sotto il vapore con un senso
di sollievo e pace che la riportò indietro nel tempo. Rivide il bagno con le
mattonelle azzurre nella casa dei suoi genitori, e risentì la voce di sua madre
cantare le canzoni trasmesse dalla radio mentre sfregava con una spugna ruvida
le schiene delle sue sorelle. Ricordava i piccoli piedi con le dita grassocce
uscire dal pelo schiumoso dell’acqua, la pelle scivolosa, le piante rugose che
cercavano i piedi dell’altra per simulare il movimento della bicicletta, l’acqua
che passava velocemente dall'azzurro della vasca al colore indistinto di una
pozzanghera, con i residui di sapone che si depositavano sui bordi di ceramica in
un lento rollio di piccole onde senza futuro.
L’acqua purificava, portava via
i sensi di colpa, lo sporco, il dolore.
Monica lo sapeva bene. Era
sempre stata l’acqua la sua fonte benedetta. La sua fonte di energia nascosta.
Uscì dalla doccia sempre più
decisa a finire quello che aveva iniziato. S’infilò l’accappatoio ed entrò in
camera da letto.
Federico Melas, il grande
cardio-chirurgo, era legato alla sedia con la bocca spalancata in una voragine
di sangue, e la lingua, tagliata di netto, era stata adagiata sopra il suo
piccolo verme traditore.
Ora, quella lingua maledetta,
non avrebbe più raccontato bugie.
Monica aspettava paziente
l’arrivo della ragazza.
Era stata lei a organizzare
il finto appuntamento con l’aiuto di internet e fremeva dalla voglia di vedere
l’espressione della puttanella davanti allo spettacolo di un uomo che non ha
neanche più una lingua per gridare “aiuto”.
Era stata brava a scoprire la
password.
Certo, suo marito non aveva
brillato per originalità e acutezza: si può usare come codice segreto il nome
della tua barca di tredici metri, quando tutti sanno, compresa tua moglie, che
ami quella barca più della tua legittima consorte?
Monica era entrata nella
casella postale del marito ed era riuscita a leggere in ordine cronologico
tutte le e-mail che l’uomo si scambiava da mesi con la piccola zoccola di
periferia.
Dove diavolo l’aveva trovata?
In una chat erotica? Servendo hamburger e patatine in qualche fast-food? In un
locale di lap-dance?
Leggendo quella serie
infinita di e-mail che arrivavano a ritroso fino al mese di maggio dell’anno precedente,
Monica aveva scoperto ogni cosa: il luogo degli incontri, i giorni esatti concordati
per gli appuntamenti clandestini, l’intimità delle parole che cresceva con il
passare dei mesi, le confidenze, i progetti, i sogni ostacolati da una moglie troppo
invadente.
Quella mattina aveva scritto
una e-mail alla ragazza fingendosi Federico. Nel messaggio scriveva
semplicemente che quella sera, dopo tanto tempo, si sarebbero incontrati finalmente
a casa sua – niente hotel, nascondigli, sotterfugi, macchine nascoste nella
boscaglia – , sua moglie era partita per
un breve viaggio con le amiche del circolo di giardinaggio e i domestici si
erano guadagnati una giornata libera per “buona condotta”.
La ragazza aveva risposto: “Arrivo
alle nove”.
Tutto qui. Arrivo alle nove.
Nessun fronzolo, nessun sentimentalismo.
“Quello che c’era da dire era
stato già detto” pensò Monica, mentre s’infilava la divisa da cameriera, complimentandosi
con se stessa per aver perso cinque chili in un solo mese.
Federico mugugnò una parola
che non avrebbe più avuto una forma se non nella sua mente. Alzò la testa
staccando il mento dal petto e uno schiocco della pelle incollata dal sangue
rappreso fece voltare Monica mentre finiva di abbottonare la camicetta bianca.
«Sei sveglio, amore?» chiese
Monica, sorridendo come un lupo pronto ad azzannare una preda indifesa. «Sono
certa che per te questo sarà un grande giorno, che dici? Non ti sembra un
grande giorno? Come mi trovi?» chiese, ruotando su se stessa, «Non pensi che mi
cada a pennello?»
Federico la guardò con uno
sguardo ancora offuscato dall’incoscienza. Il sonnifero in dose massiccia aveva
fatto il suo effetto. Vedeva sua moglie vestita con la divisa della cameriera e
non capiva bene cosa stesse succedendo. Sentiva la lingua impastata di saliva
dentro la bocca e un sapore di ferro che lo nauseava. Mosse le braccia e si
accorse di non riuscire a spostarle più di qualche millimetro. Guardò verso il
basso e vide che le braccia ruotavano dietro la schiena e lì finivano per
restare bloccate da qualcosa di stretto e duro. Provò con le gambe e anche
quelle restarono immobili, inchiodate alla sedia da legacci che non riusciva a
vedere. Era nudo. Nudo come un verme. Vide il suo pene rintanato tra le cosce
pelose e vicino alla sua palla sinistra un pezzo di carne rossa che macchiava
di rosso il pene, la pancia e le gambe.
Cosa diavolo era quella cosa
morta e sanguinolenta sulla sua coscia?
Alzò la testa per fissare la
moglie che ruotava nella stanza come in certi spot televisivi che reclamizzano
i fermenti lattici e con un grande sforzo di volontà provò a chiedere una
spiegazione. La fitta di dolore che dalla bocca s’irradiò per tutto il corpo fu
una scarica elettrica di incredibile intensità. Ma nulla, nulla, fu
paragonabile alla sensazione di quella parola che moriva nella sua testa, senza
uscire sotto forma di suoni dalla sua bocca contorta per lo sforzo e il dolore.
«Non ci provare, amore! Hai
finito di mentire» disse Monica, avvicinandosi al marito.
Facendo il segno delle
forbici con le dita simulò l’amputazione della lingua davanti alla sua faccia.
Federico spalancò gli occhi
colpito da un’onda di consapevolezza che lo sommerse.
Provò a urlare ma l’urlo
rimase prigioniero in gola.
*
«Adesso arriva la ragazza» lo
informò Monica, preparandosi un Martini con i movimenti lenti e rilassati di
una persona che non ha più niente da perdere. Aveva messo sul giradischi la
colonna sonora di “Betty Blue”: un
film che aveva visto un numero infinito di volte negli ultimi anni. Il vinile
ruotava con un leggero fruscio sul piatto e la musica si spandeva nella stanza
con una limpidezza diversa.
La puntina tracciava i solchi
e Monica ballava davanti al marito, seguendo l’evoluzione della melodia con
piccoli passi di danza.
«Lei non sa nulla, poverina.
Arriverà qui convinta di trovare il suo uomo eccitato e invece troverà me, la
moglie anonima e noiosa. Così mi definivi quando parlavi con lei, vero?
ANONIMA! Tutto posso sopportare meno che di essere definita “anonima”!»
Federico cercava di allentare
i nodi delle corde, ma più ci provava più questi si chiudevano sulla sua pelle
martoriata.
«Mi hai trattato come una
nullità e questo io non lo sopporto. La mia vita sarà stata anche una merda, ma
devo dire che tanta di quella merda che ho mangiato l’hai cacata dal buco del
tuo culo… o forse non ricordi bene?»
Monica si avvicinò al marito
e con la lingua leccò il sudore che imperlava la sua fronte pallida.
«Mmmmm…», protestò Federico,
agitandosi sulla sedia, terrorizzato dallo sguardo folle di sua moglie.
«Se ti muovi così tanto
cadrai, e io non ti rimetto di certo in piedi, bello mio! Quindi non rompere il
cazzo e aspettiamo insieme la tua fica giovane, senza tanti casini per nessuno,
okay?»
Federico la supplicò con lo
sguardo, ma Monica non aveva più in funzione il traduttore degli sguardi per
capire cosa volesse in quel momento da lei. La sua mente era tutta concentrata
sull’arrivo imminente della ragazza.
Erano le 20 e 23 minuti.
«Ti chiederai se sono impazzita,
vero?» domandò Monica, sedendosi sulla poltrona di fronte alla sedia, «… e non
avresti tutti i torti a porti una domanda così intelligente. Ma vedi, caro il
mio dottore del cazzo, non mi frega più nulla di quello che sarà di me dopo
questa sera. Mi sono stancata di essere trattata come un oggetto senza valore
da te e da tutti quelli come te. Ti sembrerà strano, ma io ti ho amato davvero.
Anche dopo la storiaccia delle tangenti ho continuato a credere in te e nel
nostro futuro. Ora, a cinquantasei anni, sono da rottamare? E no, caro il mio
dottore del piffero, a me non mi butti via come una scarpa vecchia, hai capito?»
Federico era immobile, legato
alla sedia e guardava sua moglie come si guarderebbe un mostro deforme.
«Ringrazia che non ti ho
tagliato le palle e non te le ho infilate giù per la gola al posto delle
tonsille. Ma sai, ho proprio voglia di vedere come la tua giovane troia te lo
succhia per bene! Nelle e-mail mi sfottevi. Non sono capace di succhiare un
pisello neanche dopo tanti anni di allenamento… davvero spiritoso! Avrei dovuto
esercitarmi con il primo che passava, il primo che me lo sventolava davanti,
ecco cosa avrei dovuto fare. E non perdere tempo con quella cosetta che ti
ritrovi tra le gambe. Voglio proprio vedere come se la cava la troia… sempre
che tu riesca a drizzare dopo tutto il sangue che hai perso. Non si finisce mai
di imparare dal prossimo, non credi? Dopo la lezione di “pratica orale”
deciderò se punire anche lei o lasciarla andare. Ma qualsiasi decisione
prenderò voglio che tu veda tutto, bastardo traditore… tutto!»
Monica si alzò dalla poltrona
e si diresse verso lo scrittoio. Aprì un cassetto e tirò fuori una pistola.
«Non guardarmi come se fossi
matta da legare. Quello legato come un salame sei tu, mica io. Come? Non lo
sapevi? Non sapevi neppure che la tua scialba mogliettina andava al poligono di
tiro? Ma in fondo cosa diavolo sai di me? Un bel niente! Eri troppo preso dalle
tue occupazioni extra-matrimoniali per pensare che io esistessi, vero? Bene,
ora ho una pistola e la so usare. Con il coltello me la cavo da sempre. Un
padre macellaio serve a qualcosa. Sapessi com’era bravo con i coltelli. Anche a
raccontare bugie a dire il vero. In questo siete simili. Mia madre era bella.
Bellissima. Ma a lui non importava di avere una donna innamorata che si
prendeva cura di lui e della famiglia. Per soddisfare le sue voglie qualsiasi
puttana andava bene. Mia madre si è ammazzata per quel porco. Un giorno sono
rientrata da scuola e l’ho trovata dentro la vasca. Si era immersa vestita come
si trovava, pantaloni e camicetta, lasciando cadere la radiolina accesa dentro
l’acqua. Non mi sono accorta subito di quello che era accaduto. Vedevo solo un
ciuffo di capelli e una mano reclinata sul bordo… come se la mia mamma dormisse.
Avevo solo nove anni… sai cosa vuol dire? Nove anni…»
Monica si asciugò le lacrime
che erano spuntate tra le ciglia e con un lungo sorso finì il bicchiere di
Martini.
«Hai sempre pensato che mia
madre fosse morta per una malattia incurabile e in un certo senso è vero… l’amore
può trasformarsi in un male che ti mangia dentro…»
Monica si alzò per preparare
un altro drink.
«Con me sarà tutto diverso.
Non sarò io a crepare. Sono le 20 e 45. Il tempo di un ultimo Martini e poi la
festa comincia.»
*
Quando Nina lesse l’e-mail
quasi non riusciva a credere ai suoi occhi: un incontro nella grande villa dove
Federico aveva sempre evitato di portarla?
Si era fermata qualche
istante davanti al computer, con le dita sospese sulla tastiera, indecisa sulle
parole da scrivere nell’e-mail di risposta. Alla fine aveva optato per un
sintetico: «Arrivo alle nove.»
Il capo-ufficio gironzolava
nei paraggi e non gradiva che durante le ore di lavoro le dipendenti perdessero
tempo occupandosi di questioni personali. Nina pensava da diversi giorni al
modo più indolore per dire a Federico che la loro relazione clandestina era
arrivata al capolinea. Quell’invito inatteso poteva rivelarsi l’occasione
ideale per mettere tutte le carte in gioco. Da un mese frequentava un ragazzo,
un coetaneo incontrato a un concerto rock, e quella che era partita come una
semplice scopata da sabato sera, si era trasformata in breve tempo in una
passione incontrollabile.
Deliberatamente aveva saltato
gli ultimi appuntamenti organizzati da Federico. Il bisogno di decodificare
cosa stava succedendo nella sua testa dopo l’incontro con Sonny aveva la
priorità su tutto il resto. Quando arrivò a capire quanto ci fosse caduta
dentro tutta intera in quella storia, prese la decisione di chiudere con il
passato nel modo più rapido e civile, stanca di un rapporto furtivo, ritagliato
tra i molteplici impegni del famoso cardio-chirurgo.
Nelle ore che la separavano
dalla fine del turno ci pensò spesso. Era curioso che l’ultimo incontro
avvenisse proprio in quella villa dove le era sempre stato impedito di entrare.
Il destino ha uno strano senso dell’umorismo, Nina lo sapeva: solo un mese
prima scalpitava perché Federico si decidesse a lasciare la moglie, e ora, di
quel sofferto desiderio, sembrava non rimanere altro che una manciata di
polvere incolore.
Addio bello! Io continuo per
la mia strada. Puoi tenerti la tua ricchezza infinita, la tua reputazione
immacolata e la tua odiata mogliettina se questo è tutto quello che vuoi dalla
tua vita meschina.
Nina salutò le colleghe con
un “Ci vediamo domani” e prendendo la borsa e il cappotto usci dall’ufficio con
un peso sul cuore che non vedeva l’ora di buttar via.
Sonny l’aspettava per le
dieci. Avrebbero mangiato cinese ordinando al take-way e avrebbero guardato
insieme l’ultimo capitolo di “Saw-
L’enigmista”, spalmati sul divano. Nina
adorava i thriller e adorava fare l’amore dopo aver tremato per tutto il film
abbracciata al corpo solido del suo ragazzo.
Sonny era dolce, non aveva
nulla della rude violenza di Federico.
I suoi baci erano baci e le
sue carezze erano carezze. Con Federico si aveva sempre l’impressione che i
baci e le carezze fossero un dovuto corollario di gesti affettuosi per arrivare
a soddisfare una fame più animale e istintiva. Era stato bello all’inizio del
rapporto, ma lentamente, quella bramosia selvaggia, aveva iniziato a lasciarla
spossata e delusa.
Entrò in macchina e guardò
l’orologio sul cruscotto. Erano le 20 e 10. Maledisse con il pensiero le ore di
straordinario. Mise in moto la macchina e s’infilò nel traffico della città
diretta verso la villa di Federico sulle colline a nord della città.
*
«Adesso arriva la ragazza»,
sussurrò Monica a un Federico sempre più debilitato dallo sforzo di rompere le
corde che lo tenevano inchiodato alla sedia. Nel silenzio della casa echeggiò
lo squillo del campanello.
Monica si voltò verso la
porta e ridendo come una iena ferita guardò suo marito e disse: «È qui.»
*
Nina aveva visto solo una
foto nel telefonino di Federico e non era riuscita a esprimere un parere
obiettivo sulla bellezza della moglie. Forse qualche chilo di troppo
appesantiva l’ovale del viso, la pettinatura era un po’ barocca per una donna
della sua età e il naso troppo lungo. Ma gli occhi intensi che la fissarono dal
display sapevano attirare l’attenzione con il loro taglio particolare, esotico.
Suonò una seconda volta
insistendo con il dito sul pulsante.
La porta si aprì dopo pochi
minuti e apparve una cameriera sorridente che le chiese: «Si? Chi desidera?»
Nina ricordava che nell’e-mail
Federico l’avvisava che la servitù sarebbe stata tutta via per un permesso
speciale, ma forse ricordava male o aveva letto con poca attenzione il messaggio
mentre seguiva i movimenti del capo-ufficio tra le scrivanie del reparto
contabile.
«Sono qui per parlare con il
dottor Melas», rispose Nina, con voce neutra, sorridendo imbarazzata alla
cameriera che la fissava con occhi attenti, vagamente spiritati.
«Oh, sì… il dottore mi ha avvisato
del suo arrivo. La prego, si accomodi…», e spostandosi di lato fece entrare la
ragazza.
Nina si guardò intorno mentre
la cameriera alle sue spalle chiudeva la porta, e capì cosa voleva dire essere
imbottiti di soldi semplicemente guardando il lampadario di cristallo che
pendeva imponente dal soffitto.
Con un sorriso tenero pensò
alla lampadina che pendeva nuda dal soffitto nel salotto di Sonny e senza
aggiungere una parola seguì la cameriera su per la scalinata che portava ai
piani superiori.
La cameriera saliva le scale
di marmo lentamente e parlava.
«Ha trovato molto traffico?»
«Quello solito delle otto di
sera. Tutti rientrano a casa e c’è un po’ di confusione.»
«Io non amo guidare. Ho paura
delle macchine.»
«Capisco.»
«Lei guida da molto?»
«Ho la patente da sette anni
ormai.»
«La invidio sa? Io vorrei
tanto guidare ma non riesco proprio a vincere la paura. Venga, il dottore è qui»
disse la cameriera alla fine della scala.
Si diresse verso il corridoio
di destra e si fermò davanti a una porta chiusa.
«Bussi pure ed entri.»
«Grazie», rispose Nina,
accostandosi allo stipite della porta.
La cameriera indietreggiò di
tre passi.
Nina bussò.
Da dietro la porta arrivò un
suono strano, una specie di mugolio.
“Ti prego fa che non mi abbia
comprato il gatto d’angora che gli ho chiesto per tanto tempo. Non ora, non qui…”
pensò mentre apriva la porta incerta sulla faccia che avrebbe fatto alla vista
del gattino tra le gambe di Federico.
Fu solo una breve apparizione
quella che le apparve oltre la soglia della porta.
Federico nudo, legato ad una
sedia tutto ricoperto di sangue che cercava di urlare qualcosa che non riusciva
a sentire.
Si voltò verso la cameriera
per capire cosa stava succedendo, quando un colpo in piena fronte spense la sua
coscienza, spedendola dritta sul pavimento come una bambola di pezza.
Monica rise come una matta.
«È arrivata la ragazza!»
disse, e con un veloce movimento delle mani afferrò Nina per le gambe e la
trascinò dentro la camera con un sorriso soddisfatto.
E allora? non ci puoi lasciare così!!
RispondiEliminaHo letto tutto senza quasi respirare ed ora attendo la seguente puntata!
Bravissimo!
Baci, Chus! :))
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaCara Chus, grazie per la tua visita, ma, ahimè, devo deluderti... il racconto finisce qui. Non c'è una seconda puntata. Lascio ai lettori uno spazio aperto... decidete voi cosa ne sarà di Nina, Monica e Federico. Io i semi li ho sparsi... a voi raccogliere i frutti della mia fantasia. :-)
RispondiEliminaUn abbraccio.
Molto bello, bravo Carlo, però non può finire così! ti prego, continua subito!
RispondiEliminaMa insomma... qui c'è una rivolta dei lettori? :-)
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