sabato 4 maggio 2013

ADESSO ARRIVA LA RAGAZZA


Dopo tanto tempo torno a postare un mio racconto.
Questa volta ho scelto una storia dai toni forti... pensata nel 2006 e portata alla luce in questo strano 2013. 
L'idea mi esplose in testa visitando una mostra di pittura. 
Cosa c'entra la pittura con il racconto? Niente. Ma le vie percorse dalla mia mente sono davvero imprevedibili. 
Buona lettura.

ADESSO ARRIVA LA RAGAZZA

di Carlo Deffenu

Monica tremava ancora quando lavò le forbici sotto il getto dell’acqua nel lavandino del bagno. Il sangue scorreva lungo le dita diluito in un rosa pallido e spariva in un rapido vortice nel buco dello scarico con uno strano risucchio, simile al suono di una gola catarrosa che cerca di prendere aria.
Le lampadine intorno allo specchio illuminavano una donna in sottoveste, con i capelli incollati alla testa e il volto stravolto dal dolore. Piccole macchie rosse costellavano le braccia e la pelle del viso, germogliando come corolle sulla seta della sottoveste.
Nella grande casa regnava il silenzio. Monica aveva calcolato tutte le mosse nei minimi particolari. Niente era stato lasciato al caso. I domestici godevano di un permesso speciale per partecipare al matrimonio della figlia della cuoca: sarebbero rientrati in servizio solo per la colazione del giorno dopo. Ma a quel punto il lavoro sarebbe stato portato a termine come si conviene a una donna di parola. La sua parola.
Era certa che dopo quel piano progettato con tanta cura la sua vita si sarebbe ribaltata senza darle nemmeno il tempo di dire un semplice bah!
Ma quando la testa batte e non lascia spazio alla ragione, puoi solo assecondare quel ritmo ossessivo, martellante.
Si sfilò la sottoveste macchiata. Aprì l’acqua calda della doccia e sparì sotto il vapore con un senso di sollievo e pace che la riportò indietro nel tempo. Rivide il bagno con le mattonelle azzurre nella casa dei suoi genitori, e risentì la voce di sua madre cantare le canzoni trasmesse dalla radio mentre sfregava con una spugna ruvida le schiene delle sue sorelle. Ricordava i piccoli piedi con le dita grassocce uscire dal pelo schiumoso dell’acqua, la pelle scivolosa, le piante rugose che cercavano i piedi dell’altra per simulare il movimento della bicicletta, l’acqua che passava velocemente dall'azzurro della vasca al colore indistinto di una pozzanghera, con i residui di sapone che si depositavano sui bordi di ceramica in un lento rollio di piccole onde senza futuro.
L’acqua purificava, portava via i sensi di colpa, lo sporco, il dolore.
Monica lo sapeva bene. Era sempre stata l’acqua la sua fonte benedetta. La sua fonte di energia nascosta.
Uscì dalla doccia sempre più decisa a finire quello che aveva iniziato. S’infilò l’accappatoio ed entrò in camera da letto.
Federico Melas, il grande cardio-chirurgo, era legato alla sedia con la bocca spalancata in una voragine di sangue, e la lingua, tagliata di netto, era stata adagiata sopra il suo piccolo verme traditore.
Ora, quella lingua maledetta, non avrebbe più raccontato bugie.
Monica aspettava paziente l’arrivo della ragazza.
Era stata lei a organizzare il finto appuntamento con l’aiuto di internet e fremeva dalla voglia di vedere l’espressione della puttanella davanti allo spettacolo di un uomo che non ha neanche più una lingua per gridare “aiuto”.
Era stata brava a scoprire la password.
Certo, suo marito non aveva brillato per originalità e acutezza: si può usare come codice segreto il nome della tua barca di tredici metri, quando tutti sanno, compresa tua moglie, che ami quella barca più della tua legittima consorte?
Monica era entrata nella casella postale del marito ed era riuscita a leggere in ordine cronologico tutte le e-mail che l’uomo si scambiava da mesi con la piccola zoccola di periferia.
Dove diavolo l’aveva trovata? In una chat erotica? Servendo hamburger e patatine in qualche fast-food? In un locale di lap-dance?
Leggendo quella serie infinita di e-mail che arrivavano a ritroso fino al mese di maggio dell’anno precedente, Monica aveva scoperto ogni cosa: il luogo degli incontri, i giorni esatti concordati per gli appuntamenti clandestini, l’intimità delle parole che cresceva con il passare dei mesi, le confidenze, i progetti, i sogni ostacolati da una moglie troppo invadente.
Quella mattina aveva scritto una e-mail alla ragazza fingendosi Federico. Nel messaggio scriveva semplicemente che quella sera, dopo tanto tempo, si sarebbero incontrati finalmente a casa sua – niente hotel, nascondigli, sotterfugi, macchine nascoste nella boscaglia – , sua moglie era partita per un breve viaggio con le amiche del circolo di giardinaggio e i domestici si erano guadagnati una giornata libera per “buona condotta”.
La ragazza aveva risposto: “Arrivo alle nove”.
Tutto qui. Arrivo alle nove. Nessun fronzolo, nessun sentimentalismo.
“Quello che c’era da dire era stato già detto” pensò Monica, mentre s’infilava la divisa da cameriera, complimentandosi con se stessa per aver perso cinque chili in un solo mese.
Federico mugugnò una parola che non avrebbe più avuto una forma se non nella sua mente. Alzò la testa staccando il mento dal petto e uno schiocco della pelle incollata dal sangue rappreso fece voltare Monica mentre finiva di abbottonare la camicetta bianca.
«Sei sveglio, amore?» chiese Monica, sorridendo come un lupo pronto ad azzannare una preda indifesa. «Sono certa che per te questo sarà un grande giorno, che dici? Non ti sembra un grande giorno? Come mi trovi?» chiese, ruotando su se stessa, «Non pensi che mi cada a pennello?»
Federico la guardò con uno sguardo ancora offuscato dall’incoscienza. Il sonnifero in dose massiccia aveva fatto il suo effetto. Vedeva sua moglie vestita con la divisa della cameriera e non capiva bene cosa stesse succedendo. Sentiva la lingua impastata di saliva dentro la bocca e un sapore di ferro che lo nauseava. Mosse le braccia e si accorse di non riuscire a spostarle più di qualche millimetro. Guardò verso il basso e vide che le braccia ruotavano dietro la schiena e lì finivano per restare bloccate da qualcosa di stretto e duro. Provò con le gambe e anche quelle restarono immobili, inchiodate alla sedia da legacci che non riusciva a vedere. Era nudo. Nudo come un verme. Vide il suo pene rintanato tra le cosce pelose e vicino alla sua palla sinistra un pezzo di carne rossa che macchiava di rosso il pene, la pancia e le gambe.
Cosa diavolo era quella cosa morta e sanguinolenta sulla sua coscia?
Alzò la testa per fissare la moglie che ruotava nella stanza come in certi spot televisivi che reclamizzano i fermenti lattici e con un grande sforzo di volontà provò a chiedere una spiegazione. La fitta di dolore che dalla bocca s’irradiò per tutto il corpo fu una scarica elettrica di incredibile intensità. Ma nulla, nulla, fu paragonabile alla sensazione di quella parola che moriva nella sua testa, senza uscire sotto forma di suoni dalla sua bocca contorta per lo sforzo e il dolore.
«Non ci provare, amore! Hai finito di mentire» disse Monica, avvicinandosi al marito.
Facendo il segno delle forbici con le dita simulò l’amputazione della lingua davanti alla sua faccia.
Federico spalancò gli occhi colpito da un’onda di consapevolezza che lo sommerse.
Provò a urlare ma l’urlo rimase prigioniero in gola.

*

«Adesso arriva la ragazza» lo informò Monica, preparandosi un Martini con i movimenti lenti e rilassati di una persona che non ha più niente da perdere. Aveva messo sul giradischi la colonna sonora di “Betty Blue”: un film che aveva visto un numero infinito di volte negli ultimi anni. Il vinile ruotava con un leggero fruscio sul piatto e la musica si spandeva nella stanza con una limpidezza diversa.
La puntina tracciava i solchi e Monica ballava davanti al marito, seguendo l’evoluzione della melodia con piccoli passi di danza.
«Lei non sa nulla, poverina. Arriverà qui convinta di trovare il suo uomo eccitato e invece troverà me, la moglie anonima e noiosa. Così mi definivi quando parlavi con lei, vero? ANONIMA! Tutto posso sopportare meno che di essere definita “anonima”!»
Federico cercava di allentare i nodi delle corde, ma più ci provava più questi si chiudevano sulla sua pelle martoriata.
«Mi hai trattato come una nullità e questo io non lo sopporto. La mia vita sarà stata anche una merda, ma devo dire che tanta di quella merda che ho mangiato l’hai cacata dal buco del tuo culo… o forse non ricordi bene?»
Monica si avvicinò al marito e con la lingua leccò il sudore che imperlava la sua fronte pallida.
«Mmmmm…», protestò Federico, agitandosi sulla sedia, terrorizzato dallo sguardo folle di sua moglie.
«Se ti muovi così tanto cadrai, e io non ti rimetto di certo in piedi, bello mio! Quindi non rompere il cazzo e aspettiamo insieme la tua fica giovane, senza tanti casini per nessuno, okay?»
Federico la supplicò con lo sguardo, ma Monica non aveva più in funzione il traduttore degli sguardi per capire cosa volesse in quel momento da lei. La sua mente era tutta concentrata sull’arrivo imminente della ragazza.
Erano le 20 e 23 minuti.
«Ti chiederai se sono impazzita, vero?» domandò Monica, sedendosi sulla poltrona di fronte alla sedia, «… e non avresti tutti i torti a porti una domanda così intelligente. Ma vedi, caro il mio dottore del cazzo, non mi frega più nulla di quello che sarà di me dopo questa sera. Mi sono stancata di essere trattata come un oggetto senza valore da te e da tutti quelli come te. Ti sembrerà strano, ma io ti ho amato davvero. Anche dopo la storiaccia delle tangenti ho continuato a credere in te e nel nostro futuro. Ora, a cinquantasei anni, sono da rottamare? E no, caro il mio dottore del piffero, a me non mi butti via come una scarpa vecchia, hai capito?»
Federico era immobile, legato alla sedia e guardava sua moglie come si guarderebbe un mostro deforme.
«Ringrazia che non ti ho tagliato le palle e non te le ho infilate giù per la gola al posto delle tonsille. Ma sai, ho proprio voglia di vedere come la tua giovane troia te lo succhia per bene! Nelle e-mail mi sfottevi. Non sono capace di succhiare un pisello neanche dopo tanti anni di allenamento… davvero spiritoso! Avrei dovuto esercitarmi con il primo che passava, il primo che me lo sventolava davanti, ecco cosa avrei dovuto fare. E non perdere tempo con quella cosetta che ti ritrovi tra le gambe. Voglio proprio vedere come se la cava la troia… sempre che tu riesca a drizzare dopo tutto il sangue che hai perso. Non si finisce mai di imparare dal prossimo, non credi? Dopo la lezione di “pratica orale” deciderò se punire anche lei o lasciarla andare. Ma qualsiasi decisione prenderò voglio che tu veda tutto, bastardo traditore… tutto!»
Monica si alzò dalla poltrona e si diresse verso lo scrittoio. Aprì un cassetto e tirò fuori una pistola.
«Non guardarmi come se fossi matta da legare. Quello legato come un salame sei tu, mica io. Come? Non lo sapevi? Non sapevi neppure che la tua scialba mogliettina andava al poligono di tiro? Ma in fondo cosa diavolo sai di me? Un bel niente! Eri troppo preso dalle tue occupazioni extra-matrimoniali per pensare che io esistessi, vero? Bene, ora ho una pistola e la so usare. Con il coltello me la cavo da sempre. Un padre macellaio serve a qualcosa. Sapessi com’era bravo con i coltelli. Anche a raccontare bugie a dire il vero. In questo siete simili. Mia madre era bella. Bellissima. Ma a lui non importava di avere una donna innamorata che si prendeva cura di lui e della famiglia. Per soddisfare le sue voglie qualsiasi puttana andava bene. Mia madre si è ammazzata per quel porco. Un giorno sono rientrata da scuola e l’ho trovata dentro la vasca. Si era immersa vestita come si trovava, pantaloni e camicetta, lasciando cadere la radiolina accesa dentro l’acqua. Non mi sono accorta subito di quello che era accaduto. Vedevo solo un ciuffo di capelli e una mano reclinata sul bordo… come se la mia mamma dormisse. Avevo solo nove anni… sai cosa vuol dire? Nove anni…»
Monica si asciugò le lacrime che erano spuntate tra le ciglia e con un lungo sorso finì il bicchiere di Martini.
«Hai sempre pensato che mia madre fosse morta per una malattia incurabile e in un certo senso è vero… l’amore può trasformarsi in un male che ti mangia dentro…»
Monica si alzò per preparare un altro drink.
«Con me sarà tutto diverso. Non sarò io a crepare. Sono le 20 e 45. Il tempo di un ultimo Martini e poi la festa comincia.»

*

Quando Nina lesse l’e-mail quasi non riusciva a credere ai suoi occhi: un incontro nella grande villa dove Federico aveva sempre evitato di portarla?
Si era fermata qualche istante davanti al computer, con le dita sospese sulla tastiera, indecisa sulle parole da scrivere nell’e-mail di risposta. Alla fine aveva optato per un sintetico: «Arrivo alle nove.»
Il capo-ufficio gironzolava nei paraggi e non gradiva che durante le ore di lavoro le dipendenti perdessero tempo occupandosi di questioni personali. Nina pensava da diversi giorni al modo più indolore per dire a Federico che la loro relazione clandestina era arrivata al capolinea. Quell’invito inatteso poteva rivelarsi l’occasione ideale per mettere tutte le carte in gioco. Da un mese frequentava un ragazzo, un coetaneo incontrato a un concerto rock, e quella che era partita come una semplice scopata da sabato sera, si era trasformata in breve tempo in una passione incontrollabile.
Deliberatamente aveva saltato gli ultimi appuntamenti organizzati da Federico. Il bisogno di decodificare cosa stava succedendo nella sua testa dopo l’incontro con Sonny aveva la priorità su tutto il resto. Quando arrivò a capire quanto ci fosse caduta dentro tutta intera in quella storia, prese la decisione di chiudere con il passato nel modo più rapido e civile, stanca di un rapporto furtivo, ritagliato tra i molteplici impegni del famoso cardio-chirurgo.
Nelle ore che la separavano dalla fine del turno ci pensò spesso. Era curioso che l’ultimo incontro avvenisse proprio in quella villa dove le era sempre stato impedito di entrare. Il destino ha uno strano senso dell’umorismo, Nina lo sapeva: solo un mese prima scalpitava perché Federico si decidesse a lasciare la moglie, e ora, di quel sofferto desiderio, sembrava non rimanere altro che una manciata di polvere incolore.
Addio bello! Io continuo per la mia strada. Puoi tenerti la tua ricchezza infinita, la tua reputazione immacolata e la tua odiata mogliettina se questo è tutto quello che vuoi dalla tua vita meschina.
Nina salutò le colleghe con un “Ci vediamo domani” e prendendo la borsa e il cappotto usci dall’ufficio con un peso sul cuore che non vedeva l’ora di buttar via.
Sonny l’aspettava per le dieci. Avrebbero mangiato cinese ordinando al take-way e avrebbero guardato insieme l’ultimo capitolo di “Saw- L’enigmista”, spalmati sul divano.  Nina adorava i thriller e adorava fare l’amore dopo aver tremato per tutto il film abbracciata al corpo solido del suo ragazzo.
Sonny era dolce, non aveva nulla della rude violenza di Federico.
I suoi baci erano baci e le sue carezze erano carezze. Con Federico si aveva sempre l’impressione che i baci e le carezze fossero un dovuto corollario di gesti affettuosi per arrivare a soddisfare una fame più animale e istintiva. Era stato bello all’inizio del rapporto, ma lentamente, quella bramosia selvaggia, aveva iniziato a lasciarla spossata e delusa.
Entrò in macchina e guardò l’orologio sul cruscotto. Erano le 20 e 10. Maledisse con il pensiero le ore di straordinario. Mise in moto la macchina e s’infilò nel traffico della città diretta verso la villa di Federico sulle colline a nord della città.

*

«Adesso arriva la ragazza», sussurrò Monica a un Federico sempre più debilitato dallo sforzo di rompere le corde che lo tenevano inchiodato alla sedia. Nel silenzio della casa echeggiò lo squillo del campanello.
Monica si voltò verso la porta e ridendo come una iena ferita guardò suo marito e disse: «È qui.»

*

Nina aveva visto solo una foto nel telefonino di Federico e non era riuscita a esprimere un parere obiettivo sulla bellezza della moglie. Forse qualche chilo di troppo appesantiva l’ovale del viso, la pettinatura era un po’ barocca per una donna della sua età e il naso troppo lungo. Ma gli occhi intensi che la fissarono dal display sapevano attirare l’attenzione con il loro taglio particolare, esotico.
Suonò una seconda volta insistendo con il dito sul pulsante.
La porta si aprì dopo pochi minuti e apparve una cameriera sorridente che le chiese: «Si? Chi desidera?»
Nina ricordava che nell’e-mail Federico l’avvisava che la servitù sarebbe stata tutta via per un permesso speciale, ma forse ricordava male o aveva letto con poca attenzione il messaggio mentre seguiva i movimenti del capo-ufficio tra le scrivanie del reparto contabile.
«Sono qui per parlare con il dottor Melas», rispose Nina, con voce neutra, sorridendo imbarazzata alla cameriera che la fissava con occhi attenti, vagamente spiritati.
«Oh, sì… il dottore mi ha avvisato del suo arrivo. La prego, si accomodi…», e spostandosi di lato fece entrare la ragazza.
Nina si guardò intorno mentre la cameriera alle sue spalle chiudeva la porta, e capì cosa voleva dire essere imbottiti di soldi semplicemente guardando il lampadario di cristallo che pendeva imponente dal soffitto.
Con un sorriso tenero pensò alla lampadina che pendeva nuda dal soffitto nel salotto di Sonny e senza aggiungere una parola seguì la cameriera su per la scalinata che portava ai piani superiori.
La cameriera saliva le scale di marmo lentamente e parlava.
«Ha trovato molto traffico?»
«Quello solito delle otto di sera. Tutti rientrano a casa e c’è un po’ di confusione.»
«Io non amo guidare. Ho paura delle macchine.»
«Capisco.»
«Lei guida da molto?»
«Ho la patente da sette anni ormai.»
«La invidio sa? Io vorrei tanto guidare ma non riesco proprio a vincere la paura. Venga, il dottore è qui» disse la cameriera alla fine della scala.
Si diresse verso il corridoio di destra e si fermò davanti a una porta chiusa.
«Bussi pure ed entri.»
«Grazie», rispose Nina, accostandosi allo stipite della porta.
La cameriera indietreggiò di tre passi.
Nina bussò.
Da dietro la porta arrivò un suono strano, una specie di mugolio.
“Ti prego fa che non mi abbia comprato il gatto d’angora che gli ho chiesto per tanto tempo. Non ora, non qui…” pensò mentre apriva la porta incerta sulla faccia che avrebbe fatto alla vista del gattino tra le gambe di Federico.
Fu solo una breve apparizione quella che le apparve oltre la soglia della porta.
Federico nudo, legato ad una sedia tutto ricoperto di sangue che cercava di urlare qualcosa che non riusciva a sentire.
Si voltò verso la cameriera per capire cosa stava succedendo, quando un colpo in piena fronte spense la sua coscienza, spedendola dritta sul pavimento come una bambola di pezza.
Monica rise come una matta.
«È arrivata la ragazza!» disse, e con un veloce movimento delle mani afferrò Nina per le gambe e la trascinò dentro la camera con un sorriso soddisfatto.

5 commenti:

  1. E allora? non ci puoi lasciare così!!
    Ho letto tutto senza quasi respirare ed ora attendo la seguente puntata!
    Bravissimo!
    Baci, Chus! :))

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  3. Cara Chus, grazie per la tua visita, ma, ahimè, devo deluderti... il racconto finisce qui. Non c'è una seconda puntata. Lascio ai lettori uno spazio aperto... decidete voi cosa ne sarà di Nina, Monica e Federico. Io i semi li ho sparsi... a voi raccogliere i frutti della mia fantasia. :-)
    Un abbraccio.

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  4. Molto bello, bravo Carlo, però non può finire così! ti prego, continua subito!

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  5. Ma insomma... qui c'è una rivolta dei lettori? :-)

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