venerdì 4 marzo 2016

IL TEMPO CALDO DELLE MOSCHE di VINCENZO RESTIVO


Conosco Vincenzo Restivo personalmente. Condividiamo la stessa casa editrice, la Watson Edizioni, e durante la fiera dell'editoria indipendente a Roma, PiùLibriPiùLIberi, abbiamo condiviso tempo, idee, sogni e speranze. 
Una bella persona, Vincenzo, diversamente da tanti autori (anche giovani) che qualche volta sarebbe meglio non incontrare mai, limitandosi a leggere le loro opere. Una persona umile, uno scrittore istintivo, intenso e che non si nasconde dietro maschere di comodo. 
Ci siamo conosciuti personalmente, dicevo, eppure, leggendo questo terzo romanzo, sono rimasto spiazzato dalla storia e dalla forza delle immagini che la sua arte ha dipinto. Godendo del suo affresco ho ripensato al ragazzo con cui ho pranzato, bevuto un caffè, preso la metro, riso e scherzato, e ho capito che non si può cogliere tutto di una persona, anche credendolo possibile, non ci si riesce mai davvero. 
Siamo prismi misteriosi e riflettiamo luci infinite.

IL TEMPO CALDO DELLE MOSCHE è un vero pugno nello stomaco. Un'ambientazione bucolica che nasconde molti segreti e molti angoli bui. Una storia che potrebbe definirsi horror pur non essendolo del tutto, ma anche un romanzo di formazione e un'indagine sul contagio del male in una comunità dove si professa amore e condivisione. Alcune scene sono memorabili. Molto cinematografiche. Una fra tutte? La scena dove si descrive un bambino che trascina con il guinzaglio una lontra morta, come se l'animale fosse ancora vivo. Un flash che non ti scordi, che ti rimane impresso a fuoco nella retina della fantasia. 
Io non racconto mai le trame dei libri, preferisco sottolineare emozioni e stati d'animo. La scrittura di Restivo è fuori dal tempo e non ha connotazioni rigide che possono darci un'idea precisa di dove ci troviamo proiettati. Il luogo fisico conta poco. Il paesaggio è universale e abita dentro di noi, ci invade, ci imprigiona, ci rende vittime e carnefici. La sua narrazione ricorda una favola nera e crudelissima. Una favola orfana di lieto fine e con una morale smembrata e lasciata lì, come pezzo di carne in balia delle mosche... che tutto vedono, tutto coprono, tutto succhiano con la loro insaziabile ingordigia. 
Alla fine della lettura un fantasma ha continuato a tormentarmi crudele per molti giorni e non mi è stato possibile scrivere niente finché non ho frapposto la giusta distanza tra me e la storia di Martin e Caleb. 
E ancora adesso una domanda mi tormenta assillante: c'è possibilità di una redenzione per chi commette un delitto? 
Oppure, quando il male ci contagia, i gesti più deprecabili diventano banali e scontati? 



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