giovedì 5 aprile 2012

DUE BOTTIGLIE DI GIN di CARLO DEFFENU


Le valigie si preparano sempre per andare da qualche parte. Si scelgono con cura le cose da infilarci dentro: vestiti, scarpe, libri, dentifricio, spazzolino, ciabatte. Io cerco sempre di non dimenticarmi le ciabatte. È terribile scoprire di averle lasciate sotto il letto quando ti ritrovi in una stanza sconosciuta e non sai dove mettere i piedi.
Avete mai provato a uscire da una doccia e a infilare i piedi direttamente nelle scarpe?
La sensazione che si prova è di straniamento. Come se una mano ti prendesse per i capelli e ti tirasse via dalla tua quotidianità. Ci penso anche adesso che preparo la valigia. In realtà non è una valigia.
Ho scelto lo zaino di tela che uso per le escursioni. Mi è sempre piaciuto scoprire cosa c’è dietro una collina. E anche quando non ho trovato niente di strabiliante oltre quella vetta arrotondata, mi sono goduto lo sforzo per raggiungerla. Il dolore ai piedi, il sudore, il pane condiviso, il profumo della terra e dell’erba, il volo di un falchetto. Guardo le mie ciabatte e penso che questa volta i miei piedi non avranno bisogno del loro abbraccio. Chiudo lo zaino, controllo che tutto sia in ordine ed esco di casa.
I miei genitori non ci sono. Meglio così. Non amo i saluti. Prendo un autobus che mi porta in centro. Arrivo alla stazione dei pullman e compro un biglietto per Platamona. Il cielo è plumbeo e tira un vento pazzesco. Luglio è sparito nel nulla. La bigliettaia mi chiede se va tutto bene. Sorrido. Rispondo che va tutto benissimo. Forse nei miei occhi ha visto riflesso lo stesso grigio del cielo. Salgo sul pullman e aspetto di partire. Il viaggio scorre lento e monotono. Pochi passeggeri. Gioco con le mani e conto le dita. Sono strane le mie mani. Sudano sempre.
Vorrei che non fosse così. Le sfrego sul fondo dei pantaloni tutte le volte che mi presentano qualcuno. Una ragazza, seduta qualche fila più avanti, parla al cellulare. Sento a malapena le parole che dice. Ho lasciato il mio a casa. Spento. Quanti messaggi saranno arrivati da quando ho deciso di farlo tacere?
Arrivo alla rotonda sul mare. Non scendo. C’è troppa gente che gironzola tra il bar, la gelateria e il ristorante. Proseguo. Decido di fermarmi all’altezza della terza discesa.
Qui ci sta un vecchio stabilimento balneare abbandonato. Sono le sei del pomeriggio. Si vedono solo macchine di passaggio. Uomini soli in cerca di compagnia. Lo so. Ci sono stato anche io quando ancora non sapevo chi fossi realmente. Salgo lungo una scalinata di cemento. Un uomo si avvicina con una Panda rossa e mi fa un cenno con la mano. Continuo a camminare. L’uomo insiste, suona il clacson e io faccio finta di niente allontanandomi con gli occhi bassi. 
Il vento brucia la pelle. A fatica socchiudo le ciglia per proteggermi dalle sferzate di sabbia. Nella mia mente tornano a galla le estati passate con la mia famiglia in una cabina di legno due metri per due. Il mio costume di allora. Giallo. Di spugna.
Arrivo sulla spiaggia: non c’è nessuno. Le onde ruggiscono impetuose e guardandole mi fermo sulla battigia incantato da quel rumoreggiare profondo. Cerco un riparo tra le dune. Apro lo zaino e tiro fuori l’asciugamano. Lo distendo sulla sabbia umida e mi siedo. Tiro su con il naso e inizio a canticchiare una canzone che ho sempre amato: Sabbia bagnata, una lettera che il vento sta portando via, punti invisibili rincorsi dai cani, stanche parabole di vecchi gabbiani…e io che rimango qui solo a cercare un caffè. Non è inverno. Non ci sono gabbiani e cani randagi, eppure, non so perché, ho personalizzato la strofa della canzone.
Cerco la medicina in fondo allo zaino. Metto in bocca tre pastiglie e le butto giù con un sorso di gin. Il sapore mi anestetizza la bocca. Sputo e tossisco fiato acido. Senza sapere perché…rido. Rido da solo. Non ho portato libri, musica, cibo. Solo medicine e due bottiglie di gin. Bevo e rido pensando a tutte le persone che amo. Provo a immaginare dove possono essere in questo preciso momento. Cosa fanno. Cosa pensano. Cosa dicono. Ripeto i loro nomi nel silenzio della testa e confondo i volti. Negli ultimi mesi ho vissuto sotto pressione - un palloncino gonfiato oltre il limite sempre pronto a scoppiare – e la mia mente ha perso consistenza. Le cose mi volano via. Ricordi, pensieri, nomi.
Il dottore scrive le ricette e prescrive le cure. Io eseguo e rispondo a comando alle domande.
Tutto bene? Sei sereno? Il lavoro? L’amore? Vedrai che si aggiusta tutto.
Io mica ci riesco più a pensare che si aggiusta tutto. Neanche riesco a passare più lungo quelle strade dove passavo fino a poco tempo fa. Mi fa troppo male. Un male fortissimo che mi chiude la gola.
E allora evito. Vivacchio in attesa di un miracolo. Ma i miracoli non sono roba per me. Io questo l’ho sempre saputo.
Vedo un ragazzo passare con un cane sulla riva. Corrono e sembrano felici. Nascosto dalla duna passo inosservato. Vorrei fermarlo e parlarci un po’. Quando mi decido e mi alzo è troppo tardi. Sono lontani. Slaccio le scarpe, sfilo le calze e rimango a piedi nudi. Bello. Bello sentire la sabbia tra le dita. Muovo le gambe e traccio dei solchi sulla sabbia. Poi ci gioco e costruisco una piccola collina con le mani. Raccolgo un ramo secco e lo infilo in cima. Ammiro la mia torretta e annuso l’aria.
Il vento mi ruba il respiro. Bevo un altro sorso di gin per scaldarmi. E poi penso che un’altra pastiglia non può che aiutarmi a stare meglio. La ingoio e accompagno la decisione con un po’ di gin.
Sono a metà della prima bottiglia. Mi alzo e cammino a piedi nudi sulla sabbia.
Il cielo preme come una pressa di dolore. In lontananza si staglia la sagoma di una petroliera.
Un gabbiano plana vicino alla duna e con il becco cerca di aprire lo zaino.
Torno indietro correndo e lo allontano urlando come un indemoniato.
L’uccello apre le ali e lanciando un grido stridulo riprende il volo.
Mare, mare…qui non viene mai nessuno a trascinarci via.
Canticchio la canzone di Loredana e cammino verso la riva.
Voglio bagnarmi i piedi. Sentire il freddo delle onde.
Il pomeriggio muore e la luce del sole si spegne in una flebile agonia. Mi giro verso le dune e vedo tante sagome scure venirmi incontro. Con i piedi ancora ammollo mi spavento e cerco di scappare verso il mare. I pantaloni si bagnano e il freddo sale lungo le vene. Veloce e spietato.
Il mare comincia a ribollire. Guardo sotto la schiuma e scorgo dei volti di sirena. Girano intorno alle mie gambe e agitano le code in una danza ipnotica. Indietreggio verso la spiaggia. Esco dall’acqua e mi immobilizzo sulla riva.
Le ombre mi passano accanto e non si fermano. Svaniscono nella luce morente del giorno lasciando dietro di sé una scia di cose non dette.
Disperato cerco di toccarne qualcuna. Fermatevi, grido. Ma nessuno mi ascolta. La processione svanisce nel buio. Deluso torno verso la duna. La torre di sabbia è crollata. Prendo la bottiglia di gin e bevo. Bevo fino a sentire gli occhi stanchi e le palpebre arrendevoli. Rannicchiato mi addormento e sogno i volti dei miei bambini.
Mi chiamavano Umbè. Io dicevo sempre così: ci vuole umbè di pazienza, ci vuole umbè di coraggio, ci vuole umbè di voglia di fare le cose. E loro mi sfottevano per il mio sciocco ritornello. Umbè di questo e umbè di quello. Sono stati gli anni più belli della mia vita. Aiutare gli altri. Sentirmi utile per qualcuno. I miei bambini incasinati e problematici sapevano sempre tirarmi via un sorriso. Quante storie ho visto e sentito? Quante miserie e violenze? Io pensavo di essere sbagliato e scoprivo che c’era chi lo era più di me.
Vorrei umbè di tutto questo e invece non ho niente.
Solo il gin, le medicine e il canto delle sirene.
La notte è scesa sul mondo come un sipario nero.
Le stelle sono piccole e lontanissime. Fari di uno spettacolo giunto alla fine delle repliche.
Il pubblico è andato via. La polvere torna a posarsi sulle assi del palcoscenico.
Finisco la mia seconda bottiglia di gin e mi spoglio. Resto nudo nel vento freddo della notte.
Sento la pelle rabbrividire e le lacrime volare lontano. Tiro un profondo respiro e corro verso il mare. Cado due volte sulla sabbia. Sputo, mi rialzo e riprendo a correre. Il mare arriva prima di vederlo. Le onde mi sommergono. La testa va giù. Schiuma, sabbia, detriti. Apro gli occhi e le vedo.
Mi aspettano. Allungo le mani e mi lascio trascinare. La testa scivola altrove. La voce delle sirene. Ammalia e travolge. Alzo gli occhi per guardare le stelle sotto la furia delle onde.
Ci sono tutte e sorridono.
Sorridono per me.

CARLO DEFFENU

***

Ho scritto questo racconto qualche mese fa per un progetto che alla fine non è andato in porto.
E' sempre difficile togliersi una spina dalla pianta del piede e continuare a camminare come se niente fosse realmente accaduto. Quel lieve e persistente dolore non era più sopportabile. E allora decidi di intervenire. Prendi una pinzetta, ti siedi, alzi il piede e scavi nella carne viva. Scavi, soffri, maledici la sfiga e non smetti di cercare finché la piccola scheggia non rimane sul palmo della tua mano.
Ora puoi camminare, eppure, il dolore, non è scomparso.

5 commenti:

  1. Davvero un bel racconto. Uno stato d'animo. Una fotografia.

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  2. Ci sono poche parole che possono esprimere il piacere di una grande lettura. Questo racconto è la tua anima nuda, bellissimo e coinvolgente.
    Roberto Alba

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  3. Sai come incollarci alla pagina fino alla fine del racconto, bravo. Non vedo l'ora di leggere il tuo ebook. Giuseppe Marotta

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