Ok, ci siamo...è arrivato il Natale.
Non so voi...ma io sono tutto meno che natalizio...la mia letterina per Babbo Natale ha solo tre voci: un lavoro...(serio possibilmente),..un po' di serenità per le persone che amo...(anche più di un po'...che quella non basta mai)... e infine un po' di salute (per me...e per chi ha bisogno di una buona stella).
Tutto qui.
Ho pensato di salutarvi con un racconto che inizialmente avevo pensato per il contest di Farnesi Editore sui giocattoli...ma poi mi sono reso conto che la lunghezza superava di due volte quella richiesta, e allora...vabbè, questo è il mio regalo per tutti voi.
Buona lettura!
ACQUA…FUOCHINO…FUOCO!
Sentivano
i passi degli scarponi sulle scale.
Quei
passi esplodevano come spari dentro la piccola soffitta dove, rannicchiati come
tarantole all’ombra, aspettavano in silenzio che il pericolo passasse.
Il
cielo era un quadrato di nuvole grigie incorniciato dalla finestrella
affacciata sui tetti bagnati dalla pioggia. Le gocce, violente come schegge,
colpivano le tegole con una forza che toglieva il sonno, e lasciava i bambini
nascosti nella bassa soffitta con gli occhi spalancati nel buio della notte.
Attenti alle sirene, al rumore degli aerei, allo scalpiccio degli scarponi, al
battere della pioggia sui tetti.
Ascoltare,
registrare, decodificare i rumori era l’unica cosa che restava da fare.
Davide
accarezzava i capelli biondi di sua sorella Sara.
Josef
e Gionata giocavano a tris, aiutandosi con un quaderno trovato nella soffitta,
e una matita mezzo mangiata dai topi.
Miriam
contava le perline di un bracciale che teneva tra le mani, ripartendo
dall’inizio ogni volta che arrivava all’ultima perlina.
«Io
ho otto anni» disse Davide in un sussurro, «Mia sorella ne deve fare cinque.»
Josef
alzò la testa dal quaderno macchiato dall’umidità e rispose: «Io ne faccio nove
a luglio, e mio cugino ne fa otto a marzo» aggiunse indicando Gionata con un
movimento della testa.
Miriam
non disse nulla. Continuò a contare le perline del bracciale, indifferente allo
scambio d’informazioni che avveniva a pochi passi dal punto dove se ne stava
rannicchiata.
«E
tu?» chiese Davide. «Tu quanti anni hai?»
Miriam
sollevò la testa e senza guardare nessuno in particolare disse: «Nove.»
«Quanto
resteremo chiusi qui dentro?» chiese Gionata.
«Fino
a quando la signora Ada non ci dirà che è tutto finito» rispose Josef.
«Io
non voglio restare in questo brutto posto…ho freddo» si lamentò Sara, stringendosi
al fratello con ancora più forza.
«Voi
come ci siete arrivati?» chiese Josef, chiudendo il tris per la settima volta
consecutiva.
«Ma
vinci sempre tu!» protestò il cugino, sbattendo le mani sulle assi del
pavimento in un motto di stizza.
«Sssh!
Fai piano…si sente tutto. Vuoi mettere nei guai la signora Ada?» chiese Josef.
«Scusa»
rispose Gionata, disegnando un altro quadrato diviso da nove caselline nella
pagina del quaderno.
«Qui
ci ha portati mio padre. Eravamo seduti a tavola per cenare. Ha bussato alla
porta un amico dei miei genitori e ha detto che dovevamo fuggire per
nasconderci…» disse Davide.
«Ho
fame…» piagnucolò Sara.
«Tranquilla,
tra un po’ torniamo a casa e finiamo di mangiare la minestra di verdure che
abbiamo lasciato nel piatto» la confortò il fratello, accarezzandole la testa.
«Io
ero a casa di mio cugino. Mio zio ci ha preso per il colletto della camicia e
ci ha spinto fuori urlando correte, correte, non c’è tempo da perdere…»
raccontò Josef, «Mia madre ha la febbre. Spero che non si ammali ancora di più
con la pioggia che ha fatto oggi.»
«Dove
si sono nascosti?» chiese Davide.
«Non
lo so» rispose Josef, alzando le spalle.
Un
fulmine illuminò la soffitta seguito dal boato assordante di un tuono.
Alla
luce bianca del fulmine le facce dei bambini si scolorirono per la paura.
Miriam
si contorse le dita della mani tirando il tessuto della gonna e pensò a sua
nonna: era piccola di altezza e magra come un chiodo conficcato nel legno.
Camminava veloce e faceva di conto con una rapidità che stupiva sempre i
clienti. Il negozio era stato saccheggiato solo due giorni prima. I vandali si
erano portati via tutto quello che potevano trasportare con un carretto e
distrutto quel poco che restava. Miriam era scesa con lei, la mattina seguente,
lungo la via che portava al negozio, mano nella mano, raccontando un sogno di
una rana e un cavallo che si sfidavano in una gara di salti. La nonna
ascoltava, ridendo delle svolte sconclusionate della storia: rise finché non vide
la vetrina in frantumi e i dolci sparsi ovunque, tra i drappeggi e le alzatine
di cristallo.
Si
bloccò in mezzo alla strada e sussurrò a denti stretti: «Andiamo a casa.»
Miriam
ricordava la luce triste nei suoi occhi mentre la salutava sparendo dietro la
porta: non sapeva se era ritornata subito in pasticceria per verificare i danni
o se aveva chiesto aiuto e protezione a qualcuno. Era stato il garzone della
pasticceria a bussare alla porta di casa e a trascinarla giù per le scale senza
darle spiegazioni. Miriam aveva cercato in tutti i modi di opporre resistenza,
ma era stato tutto inutile. I piedi del ragazzo sfioravano appena il selciato
mentre correva con un ciaf-ciaf delle
suole delle scarpe, tra le pozzanghere e i rivoli d’acqua sporca ai bordi delle
strade.
Miriam
contava ossessivamente le perline del bracciale e cercava di non ascoltare le
voci degli altri bambini. Era un sogno come quello della rana e del cavallo.
Lei dormiva nel suo letto. Sua nonna preparava le torte nel laboratorio nel
retro del negozio, e i suoi genitori parlavano in camera da letto con la luce
spenta. Tutto qui. Nient’altro che un sogno.
«Ci
sono le formiche» disse Sara, indicando una fila ordinata di piccole formiche nere
che saliva lungo una trave del soffitto.
«Chissà
dove vanno» disse Josef, avvicinandosi a gattoni nel punto dove si erano
accucciati i due fratelli, per guardare meglio la trave sopra la testa del
ragazzo.
«Ma
sono tantissime…da dove arrivano?»
Josef
seguì con lo sguardo la fila di formiche e scoprì un buco nel muro vicino alla
finestra: un soffio d’aria gelida passava attraverso il piccolo foro, mettendo
in comunicazione la soffitta con l’esterno.
«Arrivano
da fuori, attraverso questo buco nel muro» disse trionfante, felice di aver
svelato l’origine di quella processione d’insetti.
«Dobbiamo
trasformarci in formiche per scappare da quella fessura nel muro» disse
Gionata, guardandosi intorno alla ricerca di una via di fuga inesistente.
L’unico
modo per entrare e uscire dalla soffitta era la botola sul pavimento. Ci erano
arrivati salendo per una stretta scala di legno che scendeva dal soffitto, dopo
essere passati attraverso uno specchio a parete che nascondeva la porticina che
immetteva in una piccola dispensa: lì si trovava la scala mobile e il coperchio
della botola.
Gionata
aveva visto dei pomodori secchi allineati su uno scaffale dentro a dei
barattoli di vetro e due forme di formaggio. Lo stomaco si era contratto per la
fame, ma si era limitato a seguire il sedere del cugino lungo la scala, per entrare
nella bassa soffitta dove tre paia di occhi li guardarono con sospetto e
trepidazione.
Senza
fiatare si sedettero nell’angolo più basso e facendosi coraggio a vicenda si
spazzolarono la polvere dai vestiti.
Nessuno
parlò per diversi minuti, finché Josef non ruppe il silenzio con uno starnuto,
provocando l’ilarità dei bambini seduti intorno a loro.
Gionata
gli passò un fazzoletto che aveva nella tasca dei pantaloni, e Josef si soffiò
il naso con tutta la forza che riuscì a buttare fuori dalle narici arrossate.
«Dobbiamo
soltanto aspettare» disse Davide.
«Io
ho paura per la mamma» piagnucolò Sara.
«La
mamma è con il papà. Non devi temere. Torneremo a casa prima che sorga il sole.
La torta di mele ci aspetta!» la rincuorò Davide.
«E
se la trovano i soldati cattivi?»
«I
soldati cercano altro» la rassicurò Davide, accarezzandole i capelli
«Mia
nonna fa le torte» disse Miriam, senza distogliere lo sguardo dalle mani
grassottelle che contavano le perline.
Davide
la guardò stupito di sentire la sua voce e chiese: «Sono buone?»
«Buonissime!»
rispose Miriam, massaggiandosi la pancia che premeva contro il tessuto del
vestitino.
Dalla
strada salì il rumore di un motore che rombava con fatica.
Voci
confuse rimbalzarono tra le facciate dei palazzi: non si riusciva a capire se
in quelle voci vibrasse allarme o allegria.
Josef
allungò la mano e disse: «Acqua che non ci trovano.»
Gionata
si voltò verso il cugino e ridendo nervoso aggiunse: «Fuochino che sono
vicino.»
Davide
guardò i due ragazzini seduti uno accanto all’altro che si stringevano la mano
per sancire la terribile scommessa, e si augurò che non si arrivasse a dire
“Fuoco!” per nessuna ragione al mondo.
Era
passata la mezzanotte da dieci minuti quando Sara si addormentò tra le braccia
del fratello, abbandonando la testa ciondoloni oltre l’incavo del gomito.
Davide la cullò ancora qualche minuto prima di adagiarla su una vecchia coperta
sotto la finestra e dire a voce bassa: «Speriamo non faccia brutti sogni.»
«Io
ho sognato la rana che sfidava il cavallo e non mi ricordo chi ha vinto» disse
Miriam, con lo sguardo perso nel vuoto.
«Rane?
Cavalli? Ma di cosa parli?» si lamentò Gionata, incredulo davanti alle frasi
strampalate di quella bambina con la faccia rotonda e le dita delle mani che
sembravano dei salamini da mordere.
«Le
rane saltano. I cavalli pure. Mio padre mi legge sempre le storie sui cavalli» rispose
Miriam.
«Mio
padre mai» aggiunse Gionata, ridendo della stranezza di quella bambina grassa,
con le guance rosse come mele mature.
La
pioggia continuava a cadere sulle tegole tamburellando la sua melodia: era un
ritmo monotono e ripetitivo che induceva al sonno.
Josef
vinse per l’ennesima volta la sfida a Tris con il cugino e per non sentire le
fitte della fame si distese sulle assi di legno.
Il
freddo passò attraverso il tessuto dei vestiti e un brivido salì lungo la spina
dorsale come una carezza contropelo sulla pelliccia di un cane.
Era
stanco di nascondersi come una bestia braccata. Da giorni si erano perse le
tracce dell’intera famiglia di un compagno di scuola. Erano spariti nel nulla.
Portati chissà dove. Josef aveva paura delle voci taglienti dei soldati, della
lingua irta di punte dolorose, delle divise e degli elmetti. Quando li vedeva
passare per le strade assolate si nascondeva nei portoni aperti e li spiava non
visto, chiedendosi come potessero essere così alti, pallidi e biondi. Angeli
sterminatori con pistole al posto delle folgori.
Pregava
tutti i giorni. Pregava di nascosto senza chiedere nulla di più della fine di
un odio che non capiva.
Josef
rabbrividì per il freddo e per i pensieri che saltavano come le rane della
bambina grassa dentro la sua testa. Quel freddo lo faceva sentire vivo e per
quel fremito vitale si sentì fortunato.
Gionata
si mangiava le unghie mordendo fino al sangue la pelle morbida delle dita.
Josef
e il cugino stavano sempre insieme. I loro padri erano fratelli e vivevano a
poche centinaia di metri uno dall’altro. Josef passava molto tempo a casa del cugino.
C’era una grande terrazza dove potevano giocare e invitare gli amici del
quartiere per il campionato degli indovinelli. Se Josef era imbattibile con il
Tris, Gionata era invincibile con gli indovinelli. Riusciva sempre a
sbrogliarli e a trovare la soluzione che a tutti gli altri restava sulla punta
della lingua.
Josef
voleva diventare un capitano della Marina militare e guidare la nave più grande
della flotta. Gionata diceva sempre che voleva arrivare sulla Luna con un aereo
gigante. Josef rideva e lo prendeva in giro colpendolo con piccoli schiaffi
sulla nuca.
«Ma
cosa dici? La luna? E quando ci arriveremo mai sulla Luna?»
«Ti
dico che ci vanno, prima o poi…ci vuole tempo per inventare un aereo che voli
così in alto senza bruciare» lo rassicurava Gionata, sicuro delle sue teorie
sull’espansione dell’uomo nello spazio.
«Quando
lo vedo ci credo» rispose Josef, molto scettico sulla fattibilità di un
progetto così ambizioso.
Gionata
aveva fatto finta di niente, continuando a seguire la palla che rimbalzava sul
muro della casa: con Josef era meglio lasciare perdere, intanto alla fine aveva
sempre ragione lui.
Anche
quella sera giocavano insieme quando era arrivato suo zio obbligandoli a uscire
di casa in pochi minuti. Non era riusciti a prendere neppure le giacche pesanti
e la pila dal cassetto del comodino.
Restare
al buio, illuminati solo dalla flebile luce della luna non era davvero il
massimo che si potesse desiderare.
La
bambina grassa continuava a contare le perline con la testa china sul grembo, prestando
poca attenzione a tutto quello che succedeva al di fuori di quella conta senza
fine.
“Ha
paura” pensò Gionata, “e cerca di vincerla pensando alle sue stupide perline”.
Davide
era più tranquillo ora che Sara dormiva serena. Aveva temuto per lei mentre
correvano per le strada bagnate, salendo le scale di quella palazzina con il
portone nero senza voltarsi mai indietro. La signora Ada aveva aperto la porta
e senza dire una parola li aveva spinti verso lo specchio, aveva tirato una
corda dal soffitto della dispensa e una scala di legno era scesa come per magia
sotto i loro occhi.
«Salite
e state zitti» aveva ordinato, guardandosi dietro le spalle come se temesse
l’arrivo di qualcuno.
Erano
saliti con il cuore che batteva all’impazzata nel petto e si erano ritrovati
soli nello spazio angusto di una bassa soffitta senza mobili.
Solo
una coperta buttata in un angolo, un baule e tre moccoli di candela.
Dopo
un tempo che sembrava lunghissimo la botola sul pavimento si era risollevata un’altra
volta ed era entrata a fatica una bambina grassa, con i capelli scuri raccolti
in due lunghe trecce e un vestitino blu che tirava sui fianchi ad ogni
movimento impacciato del corpo.
Si
era subito seduta nell’angolo opposto al loro e senza dire una parola aveva
tirato fuori un bracciale di perline dalla tasca della gonna e aveva preso a
contarle, quasi a volersi sincerare che non ne mancasse nessuna.
Sara
aveva guardato suo fratello dubbiosa, come per chiedere: «Possiamo parlare?»
E
Davide aveva risposto con un buffo sul naso, tranquillizzandola con l’aiuto di
un sorriso.
Quando
la botola si riaprì per la terza volta non si aspettava più nulla: per lui, da
quella porta misteriosa, poteva passare al diavolo in persona.
Era
stato Josef ad aprire il baule per primo e a trovare il quaderno e la matita
rosicchiata dai topi. Oltre a quegli oggetti il baule conteneva solo una serie
di vecchi libri e un capello di stoffa con veletta.
Josef
lo infilò sulle testa di Gionata e rise del sorriso idiota del cugino quando si
voltò verso di lui nell’imitazione perfetta di zia Anastasia, la sorella
maggiore dei loro padri.
La
sfida a Tris cominciò subito dopo la perlustrazione del baule.
Passarono
due ore senza che accadesse niente di allarmante.
Gionata
dormiva vicino a Josef, rannicchiato tra il baule e il muro, russando piano.
Miriam stringeva le perline nella mano e teneva gli occhi chiusi. Davide
cercava di non pensare avvolto in quella cantilena di respiri. La pioggia aveva
smesso di cadere. Si era alzato il vento e quello che arrivava alle sue
orecchie erano soltanto gli scricchiolii delle tegole e delle assi.
Davide
pensò ai suoi genitori. Sua madre con le mani lunghe e affusolate. Suo padre,
con la mascella nervosa e il naso adunco sul viso tagliato da un accetta
affilata. Davide adorava le mani di sua madre.
Pianse
in silenzio senza farsi vedere da nessuno.
Solo
Miriam trasalì e sussurrò nel sonno: «Le rane…le rane…»
Passò
un’altra ora di vento e sonni agitati quando Davide fu svegliato dal rumore di
una frenata brusca sul selciato umido della strada sottostante. Si alzò a
sedere e si guardò intorno. Dormivano tutti. Compresa la bambina grassa che
contava le perline. Aspettò con l’orecchio teso, e solo quando sentì il suono
metallico delle portiere che si aprivano, e il tonfo dei corpi che si
lanciavano dall’alto con i botti sordi degli stivali sulla pietra bagnata, il
respiro gli morì in gola in un rantolo soffocato.
Si
avvicinò a quattro zampe al punto dove dormiva supino Josef e lo svegliò
scuotendolo per un braccio.
«Svegliati…»
sussurrò vicino all’orecchio del ragazzo.
Josef
aprì gli occhi e guardò Davide con sospetto.
Ci
mise un attimo a focalizzare chi fosse e dove si trovasse.
«Che
c’è?» chiese.
«Una
camionetta si è fermata sotto il palazzo» rispose Davide a bassa voce.
«Come
fai a dirlo?» chiese Josef, alzandosi sui gomiti. «Io non sento niente.»
«Ho
sentito la frenata. Le portiere che si aprivano. Il rumore degli stivali…sono
qui fuori» rispose Davide, indicando in direzione della finestra.
«Cosa
facciamo?»
«Non
possiamo fare nulla…solo aspettare.»
«Aspettare?»
chiese una voce alle loro spalle. «Aspettare cosa?»
Davide
si voltò nella direzione della voce e vide Miriam con la faccia assonnata
sbadigliare vistosamente.
Ritornò
a fissare Josef e cercò un aiuto nel suo sguardo.
«Hai
fatto brutti sogni?» chiese Josef.
«Sempre
le rane che saltano» rispose Miriam. «È ora di andare a casa?»
«Adesso
dobbiamo stare zitti e fermi» disse Davide.
Miriam
spalancò gli occhi e cercò di dire qualcosa.
«Stai
tranquilla…siamo nascosti bene» la tranquillizzò Davide.
«E
poi la signora Ada sa come bisogna fare» puntualizzò Josef.
La
notte fu spezzata all’improvviso da un urlo di donna.
Josef
e Davide si fissarono e cercarono di capire da dove arrivasse.
Il
botto di una porta fracassata, voci concitate, rumore di passi in fuga.
Erano
ancora ai primi piani e salivano lungo le scale, correndo con i loro pesanti
stivali di cuoio.
Sara
si svegliò e cominciò a lacrimare in silenzio come si rese conto della paura
abbarbicata sul volto del fratello.
Gionata
fu svegliato da Josef con una scrollata decisa.
«Ehi,
che c’è?» chiese agitato.
«Fuochino»
rispose il cugino, guardandolo con occhi decisi.
Gionata
saltò sulle gambe come una cavalletta e si mise in ascolto.
«Sono
qui?»
Le
porte continuavano a sbattere, le voci ad accavallarsi, i passi ad avvicinarsi,
il vento a soffiare fuori dalla finestrella, gli occhi di Sara a lacrimare, le
mani di Miriam a scorrere frenetiche sulle perline del bracciale, i muscoli di
Davide a fremere sotto i vestiti, le dita di Gionata a stringersi intorno alla
matita rosicchiata dai topi, la lingua di Josef a ripetere sottovoce: «Acqua,
acqua, acqua…», finché non suonò il campanello nell’appartamento sotto di loro.
Uno
squillo lungo, tagliente, lancinante nel silenzio colloso della soffitta.
Non
potevano vedere quello che succedeva, ma le voci rabbiose dei soldati e le
suppliche della signora Ada non erano un buon segnale. Passò un minuto
interminabile, poi ne iniziò un secondo ancora più lento e doloroso del precedente,
e si andò avanti così per dieci lunghissimi minuti, fino a quando non sentirono
distintamente il fruscio dello specchio che scorreva sul binario e la dispensa
che si riempiva di voci.
Gionata
era quello più vicino alla botola. Davide abbracciava forte Sara per calmarla e
tranquillizzarla. Miriam era immobile come una statua e Josef pensava a sua
madre con la febbre. Il rumore della scala che scendeva fu il segnale che tutto
era perduto.
Restarono
zitti e fermi, nella vana illusione che il predatore potesse passare oltre e
non scorgere le prede impaurite, ma fu tutto inutile.
I
passi del soldato lungo i gradini di legno risuonarono come una campana a
morto. La botola si aprì dopo qualche secondo di esitazione, e sbucò fuori
l’elmetto di un soldato. Il buio era totale, e l’uomo si accorse troppo tardi
della sagoma acquattata nell’ombra. Gionata si gettò in avanti con tutta
l’energia che la gola riuscì a liberare e gridò: «Fuoco!»
La
matita rosicchiata sprofondò nell’occhio del soldato con un suono gelatinoso.
Il sangue schizzò abbondante sulle assi del pavimento e il soldato ferito,
urlando per il dolore, si portò una mano al volto, prima di perdere
l’equilibrio e venire inghiottito dal foro della botola. Una voce rabbiosa
impartì un ordine e una raffica di mitra tagliò l’aria attraversando la
soffitta. Gionata fu sconquassato da un brivido di piombo e cadde a terra senza
salutare nessuno. Una luce verde si accese intorno al suo corpo inerte,
brillando nel buio, prima di spegnersi del tutto.
Josef
gridò il nome del cugino e in un lampo di lucidità spinse il baule sopra il
buco della botola per impedire ai soldati di inerpicarsi lungo la scala. Salì
sul coperchio per aumentare il peso che gravava sulla botola e urlò: «La finestra.
Fuggiamo dalla finestra…»
Davide
reagì subito accanendosi contro i battenti della finestra per cercare di
aprirla. La maniglia oppose una leggera resistenza prima di cedere, sconfitta
dalla determinazione furiosa del ragazzo.
Il
vento entrò con forza nella soffitta, scacciando l’odore di polvere.
«Vai
tu per prima» disse Davide alla sorella.
«Ho
paura» piagnucolò Sara, guardando il buio delle nubi sopra i tetti.
«Devi
farlo Sara…devi farlo per mamma e papà.»
La
bambina si lasciò sollevare sui fianchi dal fratello e con le piccole mani
afferrò lo stipite di legno della finestra e si issò sul tetto.
I
capelli biondi, agitati dal vento, cominciarono a danzare intorno al viso
mentre tentava i primi passi sulle tegole bagnate.
«Stai
attenta a non scivolare, resta attaccata al muro.»
«Sì,
va bene…ma vieni anche tu?»
«Ora
arrivo» rispose Davide, poi, girandosi verso Miriam, aggiunse: «Ora tocca a
te.»
«Sbrigatevi!»
urlò di nuovo Josef, sdraiato a braccia aperte sul baule.
Miriam
cercò di salire puntellando i piedi contro il muro, ma il suo peso le impediva
di arrivare alla finestra o di issarsi con la forza delle sole braccia.
«Sali
sulla mia schiena» gridò Davide, mettendosi a quattro zampe.
«Sono
pesante…»
«Prova,
non possiamo perdere tempo.»
Un’altra
raffica di mitra squarciò la notte.
Davide
sentì soltanto un grugnito di rabbia mentre Miriam saliva sulla sua schiena e
con fatica si arrampicava oltre il davanzale della finestra. Con la coda
dell’occhio scorse un bagliore verde accendersi e spegnersi alle sue spalle, e
appena il peso della bambina smise di premere sui polmoni, si voltò verso
Josef per aiutarlo a salire.
Il
ragazzo, immobile sul coperchio del baule, sembrava un bambolotto di pezza
senza vita. Le braccia inerti ai lati della cassa e la testa reclinata verso di
lui in un sorriso di sfida: l’ultimo.
Senza
fermarsi a riflettere si inerpicò attraverso il varco della finestra
raggiungendo Sara e Miriam sui tetti e cominciò a pregare.
Il
vento era tutto quello che rombava nelle orecchie. Davide si guardò intorno e
cercò di capire da che parte fuggire. Vide una passerella di metallo che
collegava il tetto della soffitta con il tetto di un palazzo vicino. Le sagome
di due grandi gabbie nascondevano alla vista la porta che li avrebbe portati
giù per le rampe di scale fino all’androne del palazzo, alla strada e, sperava,
alla salvezza.
«Andiamo
da quella parte» disse, indicando la passerella.
Miriam
lo guardò con trepidazione, con il vestitino aderente e le trecce che
sventolavano come banderuole impazzite.
Mise
un piede davanti a sé, proprio nel momento esatto in cui una faccia pallida con
un elmetto sbucò fuori dalla piccola finestra e sbraitò un ordine
incomprensibile. Miriam trasalì per lo spavento e la sorpresa.
Si
voltò verso la finestra e il piede, che stava per finire il suo movimento in
avanti in cerca di appoggio sicuro, mancò la presa e scivolò sulla tegola
bagnata.
Davide
vide Miriam cadere di schiena e scivolare giù verso il bordo del tetto agitando
le braccia nel tentativo di frenare la caduta.
Sara
urlò: «Nooo…»
Miriam
si sentì risucchiare dal vuoto con migliaia di rane che correvano verso di lei
senza raggiungerla. Era un sogno: lei dormiva nel suo letto, sua nonna infornava
i dolci nel retrobottega, i genitori parlavano con la luce spenta nella camera
da letto, e lei sognava migliaia di rane che saltavano su un tetto bagnato di
pioggia.
«Giulio…Nanni…la
volete smettere con quella Playstation?» gridò la madre dalla cucina. «Accidenti
a me e a quando vi ho comprato quella diavoleria!»
«Arriviamo
ma’…stiamo finendo una partita» rispose Giulio sbuffando infastidito.
«Sbrigatevi
a scendere o vi ritiro tutto e non la vedete più per un mese. E giuro che non
sto scherzando, capito?» minacciò la madre, alzando il tono della voce.
«Due
minuti…»
«Ma
perché hai fatto cadere Miriam?» chiese Nanni.
«Non
sono riuscito a farla saltare sulla tegola giusta e ha perso l’equilibrio.»
«Ma
cosa sono quelle rane? Non potevi inventarti un incubo migliore?»
«Quando
ho compilato la scheda mi sembrava una bella idea.»
«Per
me è un gran stronzata. Le rane sul tetto, puah! Ma chi ci crede?»
«Sto
ancora aspettando» insistette la madre, sporgendosi dalla porta della cucina
per farsi sentire meglio. «O chiudete…o chiudete! Questo non è un ultimatum…è
arrivata anche la zia.»
«Metti
in pausa» propose Nanni.
«Aspetta
un attimo…non posso lasciarli mica così.»
Davide
vide sparire Miriam oltre il bordo del tetto con una velocità che lo colse
impreparato. Un attimo prima era vicino a lui e l’attimo dopo veniva
risucchiata dal vuoto senza un lamento. Il bagliore verde esplose subito dopo
il colpo sordo del corpo che si sfracellava al suolo.
Davide
si voltò a guardare la passerella di metallo davanti a loro con la gola chiusa
dalla paura.
Prese
Sara tra le braccia e si affrettò a raggiungerla.
La
gabbie sul tetto erano piene di piccioni che dormivano con la testa sotto
l’ala. Sara piangeva. Davide non pensava a niente.
Aprì
la porta dietro le gabbie ed entrò con il fiatone in una stanza buia, piena di
giornali impilati e casse di legno. Si guardò intorno e vide le scale davanti a
sé, scendere nell’oscurità, verso un destino sconosciuto.
Sentì
le urla dei soldati farsi sempre più vicine e capì che non c’era più un attimo
da perdere. Baciò Sara sulla fronte e imboccò le scale il più velocemente
possibile, stringendola forte al petto. A metà della seconda rampa sentì le
gambe irrigidirsi e i pensieri spegnersi. Ebbe giusto il tempo di guardare gli
occhi terrorizzati di Sara, prima di non vedere più niente.
Giulio
mise il gioco “Lagerland” in pausa e si affrettò a scendere in cucina con la
speranza che la tortura del pranzo domenicale finisse il prima possibile per
tornare subito a giocare. Voleva proprio vedere se Davide e Sara sarebbero
riusciti a fuggire dall’inseguimento dei soldati conquistando il livello
superiore.
Si
sedette a tavola dopo aver salutato e baciato la zia sulle guance e attese
impaziente le lasagne al forno. L’idea delle rane non era male, ma nella
prossima partita doveva inventarsi un incubo ancora più terribile per
spaventare quella grassona piagnucolosa di Miriam.
E
perché non fare in modo che Davide zoppicasse a una gamba?
Sai
le risate sul tetto bagnato di pioggia!
«A
scuola come vanno i miei tesori?» chiese la zia, una vecchia insegnante in
pensione.
«Bene…tutto
bene» rispose Giulio, con il sorriso da “bravo ragazzo” che gli riusciva così
bene.
«Alla
grande!» confermò Nanni, giocando con le posate.
«Bravi,
sono fiera di voi…la cultura prima di tutto. In questo Paese c’è sempre meno
memoria e attenzione per il passato, i suoi grandi maestri e gli incredibili
avvenimenti che hanno sconvolto le vite dei nostri antenati.»
«I
professori hanno elogiato il loro rendimento e l’attenzione che mettono in
tutto quello che fanno» aggiunse orgogliosa la madre, per fare bella figura con
la zia maestra.
La
sigla di “Buona Domenica” irruppe nella stanza e le teste di Giulio e Nanni,
come azionate da fili invisibili, si girarono verso lo schermo della TV, per
vedere chi erano gli ospiti della puntata.
«Le
lasagne sono pronte» annunciò la madre, con la teglia calda in mano.
«Ho
una fame da lupi!» disse la zia.
«Anche
io» disse Giulio.
La
madre riempì tutti i piatti con una porzione abbondante e Giulio, spinto dalla
fretta, si infilò una forchettata di lasagne bollenti in bocca, inghiottendo
senza quasi masticare. Il boccone di pasta sbagliò strada e andò di traverso
giù per la gola. Giulio si piegò in due sulla sedia, cominciando a colpire il
petto con la mano, mentre cercava disperatamente di ingoiare aria, annaspando
cianotico.
Un
colpo di tosse più forte degli altri lo trapassò come una lama, esplodendo con
un boato impressionante. Il grumo di sugo, saliva e lasagne incastrato in gola,
schizzò fuori dalla bocca, colpendo la zia in piena fronte.
«Giuliooo!»
gridò la madre.
Ma
Giulio non pensava più a niente. Piegato sulla sedia sputava saliva e succhi
gastrici, e con il cuore in subbuglio cercava di respirare.
Sentì
la mano calda di sua madre appoggiarsi sulla fronte e la voce di Nanni che
diceva: «Accidenti che mira!» un attimo prima che l’applauso del pubblico
scoppiasse fragoroso dallo schermo del televisore.
Giulio
alzò la testa e guardò tutti con un sorriso imbarazzato sulle labbra. La zia lo
rincuorò mentre si ripuliva con una salvietta la faccia e le mani.
Il
padre lo incoraggiò con una pacca sulla spalla.
«Stai
bene?» chiese la madre, allarmata.
«Sì»
rispose con un filo di voce. «Ma non ho più voglia di mangiare. Mi fa male la
gola.»
«Ti
preparo una camomilla?»
«No
grazie, mamma. Posso andare a sdraiarmi in camera qualche minuto? Mi gira la
testa…» si lamentò Giulio.
«Sì,
vai pure…ti metto in caldo le lasagne e il pollo» disse la madre,
accarezzandogli il viso.
Giulio
si alzò da tavola, si scusò con la zia e tornò in camera con la testa china,
evitando accuratamente di incrociare lo sguardo sospettoso del fratello.
Quando
il silenzio lo rassicurò che non c’era nessun pericolo in agguato fuori dalla
porta, sfilò dal cesto dei giochi la custodia di “Lagerland”, la nascose sotto
il cuscino e accese la TV.
Davide
e Sara gli apparvero nel punto esatto dove li aveva lasciati, stretti in un
abbraccio disperato. Controllando quanto tempo mancava per superare il primo
livello, schiacciò “play” e si rituffò impaziente nel gioco.
AUGURI A TUTTI!!!
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