Il romanzo di Max Bosso, intitolato “È semplicemente amore”,
è un libro ingannevole. Lo è involontariamente, perché il titolo e la copertina
ti fa pensare a un certo tipo di storia (un amore adolescenziale tra due
ragazzi… uno italiano e uno tunisino) e invece, sebbene parli anche d’amore, di
desiderio e di fusione di corpi e menti, è molto di più di tutto questo. È un
canto d’amore… una fuga verso un’idea di felicità e libertà che possiamo anche
chiamare “utopia” o, se vogliamo, “Visione”… come nel racconto “Sulla collina
nera” di Chatwin, dove due gemelli passano tutta la vita insieme dentro una
fattoria che si chiama “Visione”, e lì dentro nascono, diventano grandi,
invecchiano e muoiono. Dentro quella visione si bastano e si completano e
nessuno, donne comprese, è ammesso e voluto. La vita è tutta concentrata e distillata in un
luogo che diventa mondo, universo, inizio e fine.
Max Bosso è abile nel seguire le avventure di Tommy e Said,
attento nel perlustrare i movimenti del cuore, della mente e del corpo; un
corpo mai negato, un corpo sempre esplorato e desiderato. Perfetti i dialoghi
che ci lasciano entrare nella storia con leggerezza e lucidità e le descrizioni
ambientali.
Alcuni passaggi sono molto cinematografici (il ritrovamento della carcassa del maiale che segnerà i ricordi del protagonista) e non è difficile “vedere”
la storia e seguire i pensieri più segreti di Tommy.
“Quando non capiamo gli altri, non si deve pensare che sono
strani” dice Said quasi alla fine del
romanzo al suo amico-amante Tommy che non capisce le parole misteriose del
ragazzo tunisino.
In questa frase ho trovato il senso di molti rapporti umani e con forza mi ha fatto soffermare sullo sguardo che io stesso proietto sul mondo che mi circonda.
“È semplicemente amore” è un romanzo misterioso, ampio,
ellittico, imperfetto, evocativo, utopico e terribilmente carnale.
Ho intervistato l’autore per scoprire
qualcosa di più della genesi del libro e conoscere meglio le sfumature della persona che si
nasconde dietro una penna così acuta e sensibile.
Ciao, Max. Il tuo romanzo è stato un finalista al premio
Calvino. Ci racconti com’è andata e come hai vissuto questo importante
risultato?
Quando la notizia mi è stata comunicata, per telefono, ero molto
emozionato, non avevo idea di cosa sarebbe capitato in seguito e immaginavo
tutto e il contrario tutto. Poi però ho capito quasi subito che indulgere
troppo alle fantasie non avrebbe fatto del bene né a me, né al romanzo, così mi
sono imposto una dose di sana leggerezza e ho semplicemente lasciato che le
cose accadessero.
L’idea del romanzo come è nata e com’è cresciuta dentro la
tua testa?
L’idea è nata e ha
preso corpo dall’esigenza di raccontare i luoghi della mia vita, che sono la
Sardegna e Torino. Curiosamente, dopo essermi traferito in Piemonte, ho
iniziato a immaginare la Sardegna e, allo stesso modo, ogni volta che sono in
Sardegna, immagino Torino. Parlo d’immaginazione, e non di ricordo, perché
quando non mi trovo fisicamente in un luogo che mi appartiene, quel luogo
prende vita nel mio pensiero e assume contorni, colori e caratteri che non
esistono nella realtà. Per quello che mi riguarda, è in questa incongruenza tra
il mondo vissuto e il mondo rivissuto con l’immaginazione che risiede l’origine
di ogni storia.
Leggendolo viene spontaneo chiedersi quanto ci sia di
autobiografico nella storia. Ci hai messo un po’ di te e del tuo mondo o si
tratta di pura finzione narrativa?
Si tratta di pura
finzione narrativa. Eppure non c’è riga del romanzo che si sottragga
all’incombenza di raccontare me e il mio mondo. Non so dirti come questo
accada, ma credo sia un elemento comune a molti scrittori.
Il tema del romanzo è l’amore… ma anche la fuga e l’utopia
che si possa vivere lontani dal mondo. Il cambio di titolo devia l’attenzione e
spinge verso una direzione un po’ ingannevole. “La qualità del dono” era un
titolo molto più poetico ed evocativo. Tu cosa volevi raccontare… cosa ti ha
spinto a scrivere proprio questa storia?
Nella tua domanda ci
sono due parole per me molto importanti: fuga e utopia. Credo che tu,
scegliendole, abbia individuato i due veri motori del romanzo. Io aggiungerei
la parola desiderio. Desiderio di fuga e desiderio di utopia, ma anche
desiderio inteso nella sua accezione più carnale. Credo che la storia di Tommy
e Said rappresenti un raccordo tra molti dei temi che tutti noi, nella nostra
esperienza quotidiana, siamo naturalmente portati ad associare a queste tre
parole.
Magistrali sono le descrizioni di luoghi e paesaggi. Lo
Sperone del Gigante diventa una sorta di isola nell’isola… un luogo dove i
personaggi si cercano, si perdono e si ritrovano. Come hai scelto il teatro
della loro fuga impossibile? E’ un luogo
della memoria?
È un luogo della
memoria, sì. E si trova in Ogliastra, la regione più aspra e violenta della
Sardegna. La più vitale, la più evocativa, la più erotica. Immagino l’Ogliastra
e soprattutto quella particolare zona dell’Ogliastra che racconto nel romanzo,
come la testa e il cuore dell’isola. Vi hanno sede la memoria e l’anelito alla
vita. Pulsano in Ogliastra valli profondissime, montagne antiche, boschi sacri
e scorci di mare: tutto, in Ogliastra, grida bellezza.
Il romanzo è ambientato a Torino e in Sardegna. Hai letto qualche autore sardo dell’ultima
generazione e se sì chi ammiri di più?
Ne ho letto molti. E
credo non esista uno solo degli autori sardi che conosco e che non influenzi la
mia scrittura: Soriga per lo sguardo cinematografico, Lecca per l’indagine
introspettiva, Fois per i movimenti di trama, Murgia per la naturale affezione
alla tradizione antropologica dell’isola. E poi Niffoi, che ha scritto pagine
d’inarrivabile splendore e sprigiona poesia in ogni nuovo romanzo e che quasi m’imbarazza
citare in un’intervista dove si parla del mio romanzo.
Letteratura gay. Cosa ne pensi? Esiste o è solo una
definizione vuota di senso?
Fatico ad associare
quest’espressione al mio romanzo. E il problema non è l’aggettivo gay, ma la
parola letteratura. Forse la “letteratura gay” esiste in senso scientifico, è
cioè una letteratura sociologica, antropologica e filosofica che affronta temi
vicini a quelli che, spesso sbagliando, si considera siano gli interessi
primari della comunità omosessuale. Considero “letteratura gay” la lettera che
un diciasettenne disperato ha inviato alla redazione di Repubblica qualche
giorno fa. Considero “letteratura gay” alcune poesie di Sandro Penna e alcuni
discorsi di Don Gallo. Considero
“letteratura gay” quelle opere che sono state scritte con l’intento dichiarato
di affermare valori politici e civili. Il mio romanzo, e tutti gli altri che
gli sono in qualche modo affini, sono soltanto storie.
La copertina perfetta per il tuo libro sarebbe stata…?
Un’immagine che hai in testa.
Nessuna. Mi piace
moltissimo la copertina del mio romanzo!
Quali sono i libri che ti hanno cambiato la vita?
Te ne dico solo due,
perché a dirne di più si rischia di essere
noiosi: Lolita, di Nabokov e Il giorno del giudizio, di Satta. Anzi, facciamo
tre e aggiungi Pastorale americana, di Roth.
Puoi descriverci la tua giornata tipo?
Lavoro, scrivo,
studio, vedo gli amici, di solito all’ora dell’aperitivo. La mattina mi piace
svegliarmi molto presto e non faccio quasi mai tardi la sera, perché voglio
dedicare sempre un po’ di tempo alla lettura.
Scrivere è?
Un brutto vizio.
Una cosa che speri che esista?
Un’estate senza
zanzare farebbe di me l’uomo più felice del mondo.
Un personaggio dei fumetti che vorresti come amico?
Mafalda.
Il cattivo perfetto?
Lucy, l’amica di
Charlie Brown.
Quanto curi i personaggi di contorno? Io ho trovato
magistrale il signor Paolino.
Quello delle
“comparse” è un problema che mi sta molto a cuore. L’attenzione che un autore,
o un regista cinematografico, riserva alle comparse è a mio avviso molto
indicativa dell’amore che nutre per la sua opera. I personaggi di contorno sono
come i bottoni per il sarto. Non puoi sceglierli a caso, devi attaccarli bene e
gli devi creare delle asole proporzionate, non troppo larghe, né troppo
strette. Altrimenti, come una giacca o un cappotto, la storia non riuscirà mai
a chiudersi.
Caffè in cialda o moka?
Al bar. Sempre.
Tre libri letti nel 2012 che consiglieresti a chi ti legge?
La cena, di Herman
Koch. Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank, di Nathan Englander. Obbedienza
e libertà, di Vito Mancuso.
Hai mai fatto una sorpresa a qualcuno?
Ma sì, come tutti.
Però devo essere sincero: non mi sono mai venute tanto bene. Non sono portato
per le sorprese. Né per farle, né per riceverle.
Cosa ti auguri di raggiungere nel prossimo futuro?
Non mi dispiacerebbe
smettere di fumare. Ma non lo vedo come un obiettivo tanto raggiungibile, non
finché continuerò a scrivere.
Biografia in una playlist?
Infanzia: La sigla di
Occhi di gatto
Adolescenza: Another Brick in the wall, dei
Pink Floyd
Età adulta: Sogno, di
Gianna Nannini
Mai compiuto illegalità nel nome della cultura?
Se lanciare insulti
all’indirizzo di un ministro durante una manifestazione è illegale, allora
possono mettermi dentro e buttare la chiave.
Feticismi tecnologici?
L’Iphone è
obiettivamente un bell’oggetto. Non so se è il caso di parlare di feticismo, ma
non me ne separo mai molto volentieri.
Cosa ami e odi del web?
Amo la possibilità di costruire relazioni. Odio
l’impossibilità di approfondirle.
Un gesto politico importante?
Cito una delle nostre
“mamme costituenti”, Teresa Mattei: l'unica volta che misi del rossetto fu per mettere una bomba.
La frase scusa preferita?
“Ho un lavoro urgente
da finire”. Di solito non c’è né il lavoro, né l’urgenza di finirlo.
Un posto dove ti senti sempre “a casa”?
Il bar Macchi di
Piazza Dante, a Pisa.
A 13 anni cosa volevi fare?
È banale, lo so. Ma
volevo scrivere. E lo facevo. Molto male, ma lo facevo.
Hai per un giorno il potere assoluto: la prima cosa che fai?
Porto indietro il
tempo e dico un sacco di sì.
Se la tua vita fosse un film, chi sarebbe il regista?
Forse Tim Burton.
M’imbatto costantemente in situazioni grottesche.
Come spiegheresti a un bambino la parola “felicità”?
Abbracciandolo stretto
e dicendogli all’orecchio: avrai una vita bellissima, potrai sempre contare su
di me.
La tua casa brucia… cosa salvi?
Il mio Mac. Cos’altro?
La volta che hai riso di più?
Mi piace ridere, mi
piace giocare, mi piace fare gli scherzi.
Mi piace vivere l’allegria, in un modo che, raccontandolo, perderebbe di
forza e di significato.
Una cosa che non hai mai capito della gente?
L’incapacità di
guardare oltre se stessi e i propri interessi.
La capirei se fosse una scelta egoistica, ma credo che il più delle
volte si tratti, molto banalmente, di pigrizia.
Una cosa che volevi e non hai avuto?
L’autocontrollo. Parto
in quarta un po’ troppo spesso. Ma sono sardo, devi capirmi.
Cosa c’è sempre nel tuo frigo?
Il vuoto. Un vuoto
deprimente, angosciante. Mangio sempre fuori casa.
Una cosa stupida che non riesci a smettere di fare?
Fumare.
Icone moderne?
Quand’ero più piccolo
ne avevo diverse: nella musica, nel cinema, nella letteratura. Adesso, che sono mediamente più disilluso, è
diventato più difficile riuscire a convincermi del fatto che, talvolta, dietro
un’icona, possa esserci del contenuto.
Chi inviteresti alla cena dei tuoi sogni?
Inviterei i miei
nonni. Perché non ci sono più e mi manca moltissimo il modo in cui riuscivano a
incoraggiarmi e a farmi sentire speciale.
So che nella mia vita non arriverà mai nessuno che sarà capace di
proteggermi come facevano loro e so anche che se ci penso troppo, potrei
cominciare a piangere e non smettere per ore.
Se alzi gli occhi e guardi il cielo…cosa vedi?
Vedo un cielo
d’estate, macchiato di nuvole grasse e piene di luce, che corrono verso il mare
e scompaiono all’orizzonte. Amo questo cielo, non mi ha mai tradito.
***
Ringrazio Max Bosso per la gentilezza e la grande disponibilità.
Vi ricordo che il libro è pubblicato da EdizioniAnordest e costa 13,90 euro.