La notte del 28 gennaio, un ragazzo di 23 anni, ha deciso di farla finita.
Si è lanciato nel vuoto dal ponte di Calabona e il cadavere è stato ritrovato il mattino dopo da un pescatore.
Ha scelto una notte fredda, battuta da un vento crudele, una notte perfetta per cercare il calore di una mano amica o, forse, sciagurata per chi ha pensieri neri che invadono da troppo tempo gli spazi liberi della mente.
Lo conoscevo di vista, nulla di più, perché studiava in una scuola vicino a un ristorante dove ho lavorato per 5 anni. Ne ho visti tanti di quei ragazzi... li ho visti passare con i loro zaini pieni e i loro giubbotti pesanti, e li ho visti crescere e cambiare con il passare degli anni. Abbozzi di uomini e donne, ancora insicuri, fragili, indecisi, che si definivano, si mettevano a fuoco con il lento passare delle stagioni.
Ho saputo la notizia da un amico insegnante che invece lo conosceva bene quel ragazzo: era stato uno dei suoi alunni qualche anno prima.
La porta mi si è aperta grazi a Facebook, come sempre; il modo più veloce per spiare le vite degli altri e capire qualcosa di cosa amano, cosa ascoltano, cosa pensano.
L'ultimo messaggio scritto dal suicida è stato un laconico: Io ho finito.
Non lo ha scritto neanche in maiuscolo... come a urlarlo con prepotenza al mondo.
No, ha preferito sussurrarlo, senza enfasi o clamore.
Ho notato che c'era solo un commento di qualcuno che scriveva dopo aver saputo della tragedia. Nessun commento prima, nemmeno un "mi piace". Scorro i post pubblicati lo stesso giorno della morte e quelli scritti nei giorni precedenti; leggo frasi misteriose, poetiche, malinconiche, a tratti disperate, spesso sconsolate.
Anche qui non trovo "mi piace" e commenti, e se ci sono sono rari e mai centrati... mai del tutto sintonizzati con quello sfogo, quella confidenza, quella sottile richiesta di aiuto, di attenzione.
Perché chi decide di farla finita lo scrive su Facebook?
Lo fa perché è un gesto automatico? Un modo per dire al mondo: "Ehi, mi sentite? Io ci sono... ehi?".
Lo fa per avere un'ultima occasione di appartenenza, di condivisione estrema?
I commenti, increduli, disperati, attoniti, di amici e conoscenti, sono arrivati solo dopo... DOPO la fine.
Ho letto il messaggio di un ragazzo che non conosceva personalmente il suicida e chiedeva con tono polemico dove si trovassero gli amici quando il ragazzo chiedeva chiaramente aiuto con le cose strane che scriveva.
Gli ha risposto una ragazza per dirgli che non si poteva giudicare se non si conoscevano i fatti... LUI è sempre stato un tipo chiuso, non parlava molto di sé e sapeva nascondere il suo malessere... rideva, scherzava sempre.
Già, rideva. Il solito commento di chi dice: Era un ragazzo così solare!
Siamo tutti solari DOPO. Sempre dopo.
Mai letto da nessuna parte di qualcuno che viene definito dagli amici "lunare".
Ci può stare il "lunatico"... ma mai "lunare".
Usiamo le parole a caso, con poca attenzione e fingiamo di credere che la faccia mostrata al mondo, sia la faccia reale. Ma noi lo sappiamo che non è così. Lo sappiamo perché siamo i primi a rispondere "Bene, grazie" quando ci chiedono come stiamo. E lo diciamo anche quando non stiamo affatto bene... quando siamo tristi, disperati, soli.
Rispondiamo "Bene, grazie" per comodità... per non perdere tempo... per non dare spiegazioni e, sottilmente, spacciamo un'idea di noi che non corrisponde alla realtà.
Ho provato a spezzare questo rituale scontato e gli effetti sono stati interessanti; ho risposto semplicemente la verità vera e ho guardato in faccia chi mi chiedeva come stavo: non si aspettavano la sincerità... sgranavano gli occhi, balbettavano parole e scuse e, a volte, superato quell'attimo di imbarazzo, si riusciva a parlare veramente di NOI.
Non lo so perché quel ragazzo che vedevo passare davanti al ristorante ha scelto di uccidersi.
Non lo so se era triste, allegro, confuso... non posso saperlo.
E non so neanche cosa avrei fatto io se avessi letto sulla bacheca di un amico: IO HO FINITO.
Conoscendomi avrei domandato: Finito cosa? Un libro? Una storia? Un progetto?
E mi chiedo perché a nessuno dei suoi amici sia la venuta la stessa invadente curiosità. Perché "invadere", a volte, è un modo di amare, di esserci, di dire parole piene e giuste.
Forse non sarebbe cambiato nulla. Forse. Io non lo so e non lo saprà mai nessuno.
Però io ci penso a questa cosa, ci penso che a volte, le domande, è meglio farle... e se le facciamo, se decidiamo di non aprire la bocca a vanvera e di farle, poi non dobbiamo temere le risposte.
Perché a volte, quelle risposte, sono VERE, e dobbiamo avere la forza e la voglia di ascoltarle e sorreggerle con il solo aiuto delle nostre spalle.
Una triste sequenza.
pensiero, parole, frasi, testo estremamente meraviglioso e toccante...
RispondiEliminaBeh, io ho appena finito di leggere La leggenda di Redenta Tiria, quindi il tuo articolo mi ha toccato molto. Quel ragazzo certo non era solare, e cercava una figlia (o un figlio) del sole che spazzasse via il buio dalla sua mente. Purtroppo però queste persone non si trovano proprio a ogni angolo di strada, quando ne incontri una te ne accorgi subito (ma su un social network è più difficile distinguerle, non puoi guardarle negli occhi, non puoi sentire veramente la qualità della loro presenza). Ma io credo come te che noi tutti stiamo perdendo la capacità di ascoltare e vedere, di esserci veramente, che è la base di ogni aiuto. E credo anch'io che, senza un po' di invadenza, non ci può essere nemmeno la solidarietà, quella catena di mani allacciate in un grande cerchio, che incontrano alla fine anche quelle della figlia del sole. Mi rattrista però leggere che proprio ad Alghero, proprio da dove mi è giunto, in un momento davvero difficile per me, un aiuto preziosissimo, sia accaduta una tragedia (e l'ultima di una triste sequenza, come scrivi tu) che ti ha spinto a scrivere queste (bellissime) riflessioni. Comunque Carlo, hai fatto bene a iniziare a rispondere la verità a chi ti chiedeva "come stai?". Bravo!!! :)
RispondiElimina