Pubblico di seguito la bellessima recensione che ha scritto Giuseppe Marotta nel suo blog "Sul dorso di un delfino".
Quando una tua storia capita tra le mani di qualcuno, non sai mai come verrà letta, vissuta e giudicata.
Vivi in un limbo dove non puoi più fare niente per intervenire sul testo.
A parlare ci pensano i personaggi che hai creato e le loro vicende.
Solo qualche giorno fa ho ricevuto per email una gentile bocciatura da un'amica scrittrice.
"Non hai scritto un capolavoro...ma è piacevole da leggere. Troppo lungo e troppe descrizioni...io taglierei cento pagine".
Ecco...per me leggere quel "piacevole" è stato come leggere "una schifezza senza carattere".
Ci sono stato male e per due giorni avrei bruciato tutte le cose che ho scritto.
Leggere la recensione di G. Marotta mi ha fatto fare pace con la mia insoddisfazione cronica...almeno per questa notte.
Ecco a voi le sue parole:
Un giorno ci rincontreremo
tutti.
La prima parola che mi è venuta in mente per
iniziare a scrivere questa recensione è stata “fotografie”. “Un posto molto
lontano da qui” è un romanzo pieno di fotografie, non di quelle stampate o
incollate sulle pagine come in un album, tanto per intenderci, ma fotografie
intese come scene folgoranti descritte con pennellate leggere fuoriuscite dalla
penna acrobatica di Carlo Deffenu.
Non vorrei sperticarmi nell’elogio gratuito del
romanzo, ma posso dire, senza enfasi alcuna, di aver trovato “Un posto molto
lontano da qui” oltre che un romanzo solido, un buon romanzo sulle nostre paure
e sulle nostre sconfitte. Sulle paure che s’insinuano in noi da bambini e che ci
tiriamo dietro per un bel po’ di anni scoprendo alla fine che sarebbe opportuno
più che combatterle, imparare a conviverci con certe paure. E sulle nostre
sconfitte, di quelle che quando ti colpiscono ti scagliano altrove, in un posto
molto lontano da qui, appunto, come palline di un biliardo colpite con violenza
da quel giocatore esperto che si chiama vita.
Il romanzo si apre con una fotografia: una bambina
che immagina la dinamica di un suicidio realmente accaduto nel luogo dove lei si
è fermata ad osservare "quel mazzo di rose bianche e due lumini rossi che
continuano a bruciare mestamente" lasciati da chissà chi. Quella bambina è
Danette, che sembra “un manga senza sorriso” e di cui scopriremo le
paure. Paure che nascono per l’assenza di un padre, militare in Afghanistan, a
sua volta prigioniero delle scene di guerra che si porta dentro anche nei giorni
di licenza che trascorre accanto alla figlia.
Sono quasi tutti così i personaggi che Deffenu mette
in scena in questo suo romanzo, personaggi che devono fare i conti con i propri
fantasmi, e per questo appaiono veri, familiari. Come Denis, quindicenne,
provato dalla brutta esperienza di essere rimasto per tre notti prigioniero in
una buca in cui accidentalmente è caduto qualche anno prima. Tre giorni con i
piedi nel limo e con le mosche, a migliaia, che gli ronzano sulla faccia e che
“si passano la voce nei campi e si raccontano che c’è un bambino prigioniero
in un buco profondo, un posto ideale per banchettare indisturbate.” Le
odierà così tanto quelle mosche Denis che, una volta libero, inizierà a
collezionarle imprigionandole nei barattoli di vetro.
E che dire di Dumas, preso a calci dalla vita. Dumas
che perde la donna amata in un incidente stradale e non si raccapezza più. Così
parte alla ricerca di qualcosa che lo aiuti a lenire quel dolore. E sarà solo in
un posto molto lontano da qui che alla fine, Dumas, riuscirà a trovare la sua
patria. E mentre cerca quel posto, Dumas scatta fotografie: fotografie di luoghi
in cui è stato felice con Dora, fotografie di luoghi in cui è stato bambino, a
testimoniare un’altra vita prima di quel dolore, e struggente è la scena del suo
ritorno nella casa d’infanzia: “Rivede il volto tondo di sua madre affacciato
alla finestra, i capelli scuri raccolti sulla nuca, le braccia robuste conserte
sul davanzale.” E il lettore la vede quasi materializzarsi sulla pagina,
quella madre. Una fotografia appunto: lì davanti a lui.
E poi c’è Polar che viene da lontano, che ha
abbandonato la sua Polonia e adesso vive senza un soldo e con tre cani
mendicando qualche spicciolo agli incroci dei semafori della città. E ci
rimarrà, su quelle strade, fino a quando non giunge inaspettata la sorpresa
finale che Dumas ha preparato per lui, prima di andarsene altrove. Polar che
nella sua terra era un professionista affermato, un giorno commette l’errore che
nessun padre vorrebbe commettere, l’errore che non ammette appello e allora
decide di andare, partire, decide di abbandonare tutto per espiare la sua colpa,
se di colpa si tratti. Ma di ciò, lasciamo al lettore il gusto della scoperta.
Tuttavia soffrire in Terra, senza darsi la morte, può essere un modo onorevole
per espiare la propria colpa.
Alla fine il cerchio si chiude, perché il filo
sottile che lega i personaggi tra di loro c’è, e resiste agli eventi. Per
Danette, che durante tutto il romanzo combatte la sua guerra con le paure che
terrorizzano tutti i bambini, Denis è diventato il supereroe che la difenderà
per sempre dall’ombra che cerca di entrare nella sua camera. E Denis, grazie a
un regalo di Dumas, saprà come tenere a bada quell’ombra cattiva che insidia la
sua principessa.
Gli elementi fantasy non mancano nel romanzo, ma ho
apprezzato l’uso parsimonioso che ne fa l’autore, il quale non eccede in
diavolerie superflue che nulla avrebbero aggiunto alla storia. Il finale è di
quelli che scaldano il cuore e lasciano spazio, giustamente, alla speranza: un
giorno, in un posto molto lontano da qui ci rincontreremo tutti. Si spera.
Buona lettura.
***
Grazie Giuseppe.
Mi fa piacere ricordare che il tuo romanzo "I bambini osservano muti le giostre dei grandi" (recensito in questo blog) è stato opzionato per il cartaceo dalla Corbaccio.
Non mi stupisco di questa bella novità.
Leggendolo avevo capito al volo che la storia meritava una ribalta più importante di quella che può regalare un'uscita in ebook.
In bocca al lupo per tutto.
<3 bello :)
RispondiEliminaG.
Bellissima recensione d'autore. Vanne fiero, Carlo!
RispondiEliminaDante
E infatti, caro Dante, ne vado molto fiero. :-)
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